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DŌTOKU

Parlare della Via

 

 

Il capitolo tratta della capacità di “Parlare della Via” attra­verso l’uso delle parole, o senza, e dei relativi rapporti con il silenzio, la prassi, lo zazen. Il Maestro Dōgen svolge il suo insegna­mento attraverso il commento alle parole espresse dal Maestro Jōshū e dal Maestro Seppō.

 

Tutti i Buddha e tutti i Patriarchi parlano della Via. Per­ciò, quando  Buddha e Patriarchi scelgono Buddha e Patriar­chi, quali loro eredi nel Dharma, senza dubbio li interrogano per vedere se sanno come parlare della Via. Questo interrogare è condotto con corpo e mente, con uno scacciamosche e con un bastone, con un pilastro e con una lanterna di pietra. Se essi non sono Buddha e Patriarchi, non possono essere in­terrogati, né pos­sono parlare della Via, poiché non ne pos­siedono l’essenza.

Parlare della Via non dipende dall’altrui o dalla propria ca­pacità. Il semplice investigare su Buddha e Patriarchi ci rende capaci di parlare della loro Via. All’interno di tale parla­re della Via vi è la tradizionale prassi e illuminazione che con­tinua ad essere realizzata e studiata ai giorni nostri. Quando Buddha e Patriarchi si adde­strano e valutano i loro discorsi, il loro parlare della Via diventa la prassi di tre, otto, trenta o quaranta anni. È il continuo parlare della Via.

Un commentario afferma: “Venti o trent’anni di prassi sono compiuti mediante il parlare della Via.” Durante tutto questo tempo, essi agiscono nella prassi il totale parlare della Via e il suo conseguimento. Durante un tale addestramento non bisogna sprecare nean­che un attimo. Perciò l’osservazione ba­sata sul risveglio è sempre corretta. Il parlare della Via nel presente, dun­que, non contiene alcun dubbio o errore. L’attuale parlare della Via reca in sé l’osservazione del passato. Le osservazioni del passato contengono l’attuale parlare della Via. Perciò, osserva­zione e parlare esistono nel passato e nel presente, e non c’è tra di essi soluzione di continuità. La nostra prassi attuale è basata sul corretto osservare e parlare della Via.

Se una simile prassi è perseguita per mesi e an­ni, tutto il cattivo karma[1] passato gradualmente scompare. Una volta liberi da esso, la nostra pelle, carne, ossa e midollo si rinnovano e paesi, terre, montagne e fiumi sono lasciati cadere. Dunque, il la­sciar cadere diviene la meta finale a cui cerchiamo di giungere. Que­sto giungere è l’emergere del nostro vero sé; alla fine sopravviene il giusto tempo del lasciar cadere e così si attua il parlare della Via, su­bitane­amente e senza preav­viso. È così che, senza alcuno sforzo di corpo e mente, possia­mo naturalmente parlare della Via. Non vi è al­cunché di strano o di inconsueto in questo parlare della Via.

Quando, tuttavia, si è conseguito il parlare della Via, è ne­cessario ancora chiarire quali cose non sono dette, né conse­guite. Se pure riconosciamo il conseguimento del parlare della Via, ma trascu­riamo di chiarire le cose non dette, né conseguite, mancheremo il volto originario, le ossa e il midollo dei Buddha e dei Patriarchi.

Dunque, come possono il parlare e il consegui­mento di pelle, carne e ossa di altri, essere uguali al consegui­mento del mi­dollo attraverso il parlare mediante tre prostrazioni e il tornare in silen­zio[2] al proprio posto? Il conseguimento degli altri allievi non era nep­pure da paragonare a quello di Eka. Qui, Eka e gli altri tre allievi ave­vano, ognuno, una diversa esperienza dell’insegnamento del loro ma­estro, e altri esseri avranno ancora idee differenti. Eka possie­de una parola pronunciata e una parola non pronunciata; anche altri pos­sie­dono una parola pronunciata e una non pronun­ciata. Nel parlare e non-parlare della Via, vi è un sé e un altro-da-sé,.

Il Grande Maestro Jōshū Shinsai[3] disse ad un’assemblea di monaci: “Potete restare nel monastero tutta la vita, concentrandovi nello zazen per dieci o quindici anni senza parlare, ma questo non significa che siate muti. Nessun Buddha può su­perarvi.”

In questo modo, vivendo nel monastero dieci o quindici anni e osservando l’andare e venire della brina e dei germogli, per tutta la vita studiamo diligentemente la Via, consi­derando quanti di­scorsi sono contenuti nel continuo zazen. Perché la gente pensa che l’ininterrotto esercizio del kinhin,[4] dello zazen e del dormire in un monastero, sia muto? Benché non sia certo da dove venga la nostra vita, ora che ci siamo affidati alla vita Zen, non vorremmo mai lasciare il monastero. Quella nel monastero è l’unica vita da condurre. Concen­tratevi solo sullo zazen e non occupatevi del non-parlare. Il non-par­lare è la testa e la coda del par­lare.

Il continuo zazen deve essere sostenuto per tutta la vita, non per pochi minuti. Se vi concentrerete sullo zazen, senza parlare per dieci o quindici anni, tutti i Buddha vi riconosceran­no. In verità, nemmeno l’intuizione del Buddha può penetrarne l’effi­cacia, né il Suo po­tere può smuovere, influenzare o distruggere il merito del continuo zazen senza parlare. Ciò che Jōshū disse sul “Continuo zazen senza parlare” non ha a che fare con l’essere o non essere silenziosi. Tutti i Buddha lo affermano. Non lasciare il monastero per tutta la vita, è parlare della Via per tutta la vita. Concentrarsi sullo zazen e non parlare per dieci o quindici anni, è parlare della Via per dieci o quindici anni. Mediante lo zazen possiamo superare centomila Buddha, ed essi pos­sono supe­rarci mediante lo zazen. Ecco perché la vita dei Buddha e dei Patriarchi, spesa a parlare della Via, è per voi il non lasciare il monastero per tutta la vita. Pur rimanendo sempre in silenzio, ancora, siete in grado di par­lare della Via. Non studiate che un muto non può parlare della Via. Parlare della Via non è sempre non-muto; anche un muto può parlare della Via. Sicuramente possiamo udire la vo­ce di un muto e ascol­tare le sue parole. Se non siete muti, come potete incontrare o parlare ad un muto? Ciò nonostante, vi sono muti che dobbiamo incontrare e con i quali dobbiamo parlare. Studiate in questo modo per scoprire il signi­ficato di muto.

Nella comunità del Grande Maestro Shinkaku[5] del monte Seppō, vi era un monaco che aveva costruito una capanna tra le mon­tagne ed era andato a viverci. Molti anni erano pas­sa­ti, egli si era la­sciato crescere i capelli e nessuno sapeva che tipo di esistenza condu­cesse. La sua vita là era solitaria e quieta. Si era fabbricato un mestolo con un ramo, e viveva semplicemente. Così passavano i giorni e i mesi e, poco a poco, il suo modo di vivere giunse a conoscenza degli estranei. Un giorno, un mona­co si fermò al suo eremo e gli chiese: “Perché il primo Patriarca è venuto da occidente?” L’eremita disse: “Il torrente è profon­do e il manico del mestolo è lungo.” Il mo­naco non comprese e se ne andò senza inchinarsi né fare alcun ge­sto. Tornò da Seppō e gli riferì la risposta dell’eremita. Dopo che ebbe udito il rac­conto, Seppō disse: “Che strano. La sua risposta è del tutto esatta. Stavolta andrò di persona ad interrogarlo.” Seppō giudicò che la rispo­sta dell’eremita fosse troppo giusta e, perciò, un po’ strana. Volle dun­que andare a vedere di persona. Qualche tempo dopo, Seppō si recò all’eremo con un monaco attendente che portava con sé un rasoio. Una volta giunti alla capanna, Seppō disse: “Se hai conse­guito la Via e sei in grado di parlarne, perché non ti sei rasato il capo?” Dovremmo prestare molta attenzione a questa domanda, in quanto sembra voler affermare che non è necessario che vi rasate il capo se avete conseguito la Via. Cosa pensare? Se questo è con­seguire la Via, allora non è necessario radersi il capo. Solo colo­ro che considerano questa domanda con un certo grado di comprensione possono affer­rarla.

Udite le parole di Seppō, l’eremita si lavò i capelli e gli si presentò. Gli si presentò perché aveva conseguito la Via o perché non l’aveva conseguita? In ogni caso, Seppō gli rase il capo. Questa storia di causa ed effetto è veramente lo sbocciare di un fiore di udumbara. Non solo essa ci mostra come vedere, ma ci mostra an­che come udire. Essa non si limita ai sette o dieci stadi degli stu­denti Hīnayāna, e nemmeno alle opinioni dei tre o sette saggi. Gli studenti dei sūtra e dell’abhidharma[6] e coloro che denigrano il potere so­vranormale non possono neppure immaginarla. Udire questa storia è come incontrare i Buddha che si sono manifestati in questo mondo.

Dovremmo riflettere sulla domanda di Seppō: “Se hai con­seguito la Via e sei in grado di parlarne, perché non ti sei rasato il capo?” Coloro che non hanno conseguito la Via, ma possiedono un erto grado di comprensione, dovrebbero esse­re sorpresi da questo racconto; coloro che non hanno al­cuna comprensione resteranno in­dif­ferenti. Quando Seppō parlò all’eremita non lo interrogò sul Bud­dha, la Via, il samādhi o sulle dhāranī.[7] Sembra che abbia posto una do­manda, ma in realtà sta manifestando la Via attraverso la parola. Dobbiamo chiarire questo punto, nei dettagli. L’eremita era tuttavia un uomo veramente capace e dunque, quando fu interrogato sulla Via, non rimase indifferente. Egli mani­festò il suo atteggia­mento lavandosi i capelli. Questo è un aspetto del Dharma che non può es­sere spiegato neppure con la saggezza del Buddha stesso. Il suo la­varsi i capelli è una concre­ta manifestazione del corpo del Buddha, ed è proclamare il Dharma e salvare gli esseri senzienti. Se Seppō non fosse stato l’uomo giusto, avrebbe gettato via il rasoio e sarebbe scop­piato in una fragorosa risata. Ma egli era la persona giusta e aveva ab­bastanza potere per radere il capo all’eremita.

In verità, se il rapporto tra Seppō e l’eremita non fosse stato identico a quello tra Buddha e Buddha, questo epi­sodio non sarebbe potuto accadere. E ancora, se solo uno dei due fosse stato un Buddha o se non fossero stati dei veri draghi, un tale dialogo non si sarebbe mai verificato. Il Drago Nero na­sconde i suoi gioielli sotto le fauci, ma essi possono essere strappati via da coloro che veramente ne ab­biano la capacità. Dovremmo sapere che Seppō voleva guardare nel cuore dell’eremita e che l’eremita voleva vedere attraverso Seppō. Di essi, uno parlò, uno no; uno rasò, uno venne rasato. Ecco perché i buoni amici che hanno conseguito la Via, possono naturalmente comprendersi l’un l’altro. Simili persone, che pos­sono esprimersi senza parlare, sono come vecchi amici.

Questo genere di studio e una tale prassi comune, sono la realizzazione sia del conseguimento, sia del parlare della Via.

 

 

Questo fu scritto, nel Kannondōri-Koshōhōrinji, il 5 ottobre 1242.

Ricopiato da Ejō, il 2 novembre dello stesso anno.



[1] La risultante della legge di causa ed effetto.

[2] Si riferisce alla trasmissione dal Maestro Bodhidharma al Maestro Taiso Eka (487-593). Si veda il cap. 38, Kattō.

[3] Il Maestro Jōshū Jūshin (778-897), uno dei successori del Maestro Nansen Fugan. [Chao-chou Ts’ung-shen]

[4] Il kinhin è una camminata cerimoniale che si effettua tra uno zazen e l'altro la cui modalità consiste in “Mezzo passo un espiro, mezzo passo un ispiro”.

[5] Il Maestro Seppō Gison (822-907), uno dei due successori del Maestro Tokusan Senkan. Shinkaku Zenji è il suo titolo postumo. [Hsüeh-feng I-ts’un]

[6] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari, che assieme ai Sūtra (i discorsi), e al Vinaya (i precetti), forma il Tripitaka, i tre canestri dell’Insegnamento.

[7] Le dhāranī sono invocazioni alla cui recitazione è attribuito un potere mistico.