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ARAKAN

L’Arhat

 

 

Questo capitolo, che è interamente dedicato alla figura dell’arhat. si svolge attraverso il commento di alcune citazioni da sūtra Mahāyāna, delle parole del Maestro Engo sulla vita degli arhat, e di un kōan del Maestro Hyakujō. Il Maestro Dōgen evidenzia il suo il pro­fondo convincimento che, malgrado la figura dell’arhat sia attribuita tradizionalmente alla corrente Hīnayāna, il Dharma del Buddha trascende la differenziazione tra Hīnayāna e Mahāyāna.



 Tutti i pensieri malvagi sono estinti, le pas­sioni sono estirpate, il me­rito del­l’illuminazione è conquistato, l’illusione è di­spersa ed emerge la completa libertà della mente. Questa è la Via di un grande arhat.[1] È la condi­zione ultima di coloro che studiano la Via del Buddha, ed è il quarto stadio dell’addestramento Hīnayāna: que­sto è l’arhat.

Tutto il male” è come il manico rotto di un me­stolo. Anche se il male è stato commesso per lungo tempo, ora è estinto e in sua vece si manife­sta un vero mestolo, nella sua forma originaria. “Il me­rito dell’illuminazione è conquistato” è il comparire della cosa più importante.

L’illusione è dispersa”, non è nascosta in qualche luogo nelle dieci direzioni dell’Universo.

Emerge la completa li­bertà della mente” si do­vrebbe investigare come “L’alto è di per sé alto, e il basso è di per sé basso.” Perciò abbiamo muri, te­go­le e pietre.

Completa libertà” è la totale attività della mente.

Le passioni sono estirpate” significa che non vi è alcuna contaminazione, in origine. Le contaminazioni im­pediscono le contaminazioni e queste non possono verificarsi. Il potere spirituale, la prajñā, la concentrazione, l’insegnamento, il proclamare la Legge, lo splendore ecc. di un arhat non sono paragonabili all’agire della gente comune o dei dèmoni. I sūtra affermano che gli arhat possono vedere un centinaio di mondi di Buddha. La gente comune non può vedere queste cose. Ecco il princi­pio che sta dietro a: “Pensavo che gli stranieri avessero la barba rossa, ora so che coloro che han­no la barba rossa sono stra­nieri.”[2] Penetrare nel nirvāna è entrare nel nostro pugno chiuso[3] e pro­seguire la nostra vita naturale. Dunque si può affermare che è im­possibile evitare la serena mente del nirvāna. Cogliere l’essenza degli arhat significa di­ventare un arhat; se non ne abbiamo ancora colto l’essenza, noi stessi non possiamo essere dei veri arhat.

Un antico sūtra af­ferma: “Oggi siamo diven­tati veri arhat. Mediante la voce della Via del Bud­dha proclameremo la Legge così che tutti gli esseri la udranno.” Il si­gnificato di “Tutti gli esseri la udranno” è che ogni no­stra azione dovrebbe essere la voce del Buddha. Questo non riguarda solo i Bud­dha ed i loro di­scepoli. Chiunque possieda consape­volezza, intelli­genza, pelle, carne, ossa e midollo, può far sì che tutti gli es­seri odano la voce del Buddha. Si dice che consapevolezza e intelligenza si esten­dano a paesi e terre, ad erba, alberi, mu­ri, tegole e pietre. Anche le foglie che cadono e i fiori che sbocciano, l’andare e il venire di vita e morte, possono fare in modo che altri odano la voce del Buddha. “Tutti gli esseri la udranno” ci mostra che non do­vrem­mo ascoltare le parole soltanto con le orecchie. Il Buddha Śākyamuni disse: “Se i miei disce­poli si consi­derano arhat o pratyekabuddha, senza avere mai udito o imparato ciò che i Buddha hanno insegnato solo ai Bodhisattva, allora que­sti non sono miei discepoli, né arhatpra­tyekabuddha.”

Insegnato ai Bodhisattva” significa “Solo io e tutti i Bud­dha dell’Universo lo conosciamo” e “Solo il Buddha tra­smette il Buddha.” Studiate ciò a fondo, e poi impartite un insegnamento ba­sato su shohō jissō[4] e sulla suprema e perfetta illuminazione. Dun­que, ciò che affermano i Bodhisattva e i Buddha è equivalente a ciò che affermano gli arhat e i pratyekabuddha. Questo è perché hanno udito ed imparato che i Buddha e i Tathāgata insegnano solo ai Bodhisattva.

Un antico sūtra afferma: “Nei sūtra degli śrāvaka[5] sono ci­tati coloro che sono chiamati arhat e che sono giunti al livello di Bud­dha.” Questa frase è la certificazione della Via del Buddha. Non è tanto la spiegazione degli studiosi dell’abhidharma[6] quan­to piuttosto una norma della Via del Buddha. Dob­biamo studiare il principio di “Coloro che sono chiamati arhat, hanno raggiunto il livello di Bud­dha” e di “Coloro che sono giunti il livello di Buddha, sono chiamati arhat.” Al di fuori dello stadio di arhat non esi­ste altro. Per di più, è questa suprema illumina­zione? Al di fuori della su­prema e perfetta il­lumi­nazione non esiste altro. Esistono i quattro tipi di prassi e i rela­tivi effetti?[7] Quando un arhat porta a com­pimento tutti i dharma, è il tempo dell’illimitata Via del Buddha, e cioé: “Non-mente, non-Buddha, non-cose.” Neppure l’Occhio del Buddha può vederlo. E non può essere descritto come un certo preciso momento all’interno di innumerevoli kalpa. Dobbiamo studiare il potere che ci permette di ve­dere mediante l’intuizione illuminata; allora vedremo che anche la cosa più piccola contiene ogni cosa.

Il Buddha Śākyamuni disse: “Vi sono bhiksu e bhiksuni[8] che pensano di aver già acquisito la con­dizione di arhat, di aver rag­giunto l’ultima rina­scita e conseguito la meta del nirvāna; essi perciò non ricercano la suprema e perfetta illumina­zione. Costoro sono arro­ganti e, se non credono nella su­prema e perfetta illuminazione, non vi è alcun pre­supposto per chiamarli arhat.” Chi ha fede nella suprema e per­fetta illu­minazione può dunque essere chiamato arhat, e il Dharma può essere trasmesso. Una tale diretta trasmissione è la prassi e illumina­zione del Dharma. In verità, conseguire la condizione di arhat non è solo essere giunti alla rinascita ultima ed entrare nel nirvāna finale. Cercare la suprema e per­fetta illuminazione è ricercare l’intuizione illu­minata; è addestrarsi nello zazen davanti ad un muro, ed è e aprire gli occhi. Benché il mondo sia illimitato, emerge la to­tale e libera attività. Il tempo è immutabile eppure si manife­stano dialo­ghi disi­nibiti tra maestri e allievi. Questo è: “Cercare il supremo e perfetto ri­sveglio” cioè, cercare un arhat. Questa ricerca è la totale perfe­zione.

Il Maestro Zen Kassan Engo,[9] disse: “Gli uo­mini dei tempi antichi, dopo aver conseguito il risveglio, si ritiravano nei luoghi più nascosti tra le montagne, sceglievano una caverna celata da arbusti e cespugli, e cucinavano con utensili rap­pezzati. Essi vivevano in questo modo per dieci o vent’anni; si dimentica­vano totalmente del mondo degli uomini ed erano felici di aver lasciato la sua polvere ben lontano. Al giorno d’oggi, la gente non ha la pretesa di fare una vita simile; vuole semplice­mente restare anonima, mantenersi nasco­sta, e non fare nulla più del necessario. Così diventano vecchi, poco più che pelle e ossa. Vivono una vita illuminata, soli, secondo la pro­pria capa­ci­tà indi­viduale. Il vecchio karma è estirpato e le antiche abitudini sono svanite. Se hanno qualche particolare potere cercano di tra­smet­terlo ad altri, e operano per stabilire rapporti basati sul karma. Adde­stran­dosi ulteriormente, essi ne traggono grandi frutti. Trovare una sola persona che cerchi la Via, è come strappare un sin­golo filo d’erba in un campo incolto. Assieme, sviluppiamo la co­no­scenza e conse­guiamo la liberazione da vita e mor­te, conducendo una vita fruttuosa con gratitudine verso i Buddha e i Patriarchi. Un tale consegui­mento non può, tuttavia, essere tenuto solamente per se stessi, neanche vo­lendolo. È come la brina d’autunno che permette ai fiori primaverili di sbocciare. Questa prassi gio­va alla società, ed è usata da quelli che la cer­cano; essa coltiva il mondo ma non è sedotta da desi­deri. Come può qualcuno con una tale prassi, di­ventare un monaco mondano at­taccato alla gente ricca? Se lo facesse, offende­rebbe laici e saggi e, cercando ricchezza e fama, il suo karma lo con­dur­rebbe agli inferi. Coloro che mantengono la cor­retta prassi sapranno condurre una vita priva di desideri, an­che occupando posi­zioni di potere; inol­tre, sia pure non compiendo grandi gesta, le loro vite sono vite di veri arhat.” Ecco perché dunque, quei monaci sono veri arhat che hanno lasciato dietro le spalle la pol­vere del mondo. Dovete comprendere questo, se vo­lete conoscere la vera forma di un arhat. Non dovete prestare ascolto agli errati insegnamenti degli studiosi indiani dell’abhidharma. Il Maestro Zen Engo è un Buddha e un Pa­triarca, ed è l’erede nel Dharma della corretta trasmissione.

Il Maestro Zen Daichi,[10] del monte Hyakujō nel Koshū, disse: “Ciascuno dei sei organi sensoriali: occhio, orec­chio, naso, lin­gua, corpo e coscienza, non è contaminato da tutti i dharma esistenti e non-esistenti.” Questo è detto possedere un gāthā di quattro versi,[11] o il quarto stadio dell’addestramento.[12] Quando i sei organi senso­riali operano e trascendono sé e altri, l’estensione totale del loro merito non può essere misurata. Per­ciò il cor­po intero è inconta­minato, così come tutti i dharma esistenti e non-esistenti.

Possedere un gāthā di quattro versi, signi­fica che ogni organo è incontaminato. Questo è an­che chiamato il quarto stadio, lo stadio di arhat. Dunque, l’arhat è l’attuale realizzazione dei sei organi sen­so­riali. Formulare e mante­nere questo principio è tra­scendere la con­tamina­zione. Questo aprirsi un varco nella bar­riera e possedere un gāthā di quattro versi, è il quarto stadio. L’intero corpo è realizzato dalla testa ai piedi e non resta alcunché.

Possiamo esprimerlo così: “Quando un arhat si trova con persone comuni, tutto il suo insegna­mento viene osta­colato da esse. Quando si trova con degli esseri ri­svegliati, tutto il suo insegnamento viene liberato. Dobbiamo sapere che in ogni circo­stanza gli arhat e tutti i dharma coesistono. Se atte­stiamo la condi­zione di arhat, essa si estende ovunque.” Questo è il pu­gno che esisteva prima del Buddha Kūō.[13]

 

 

Trasmesso ai monaci nel Kannondōri-Koshōhōrinji, Uji, il 15 maggio 1242.

Tra­scritto da Ejō, il 16 giugno 1257.



[1] Arhat, lett. “Colui che ha valore”. Nel Buddhismo Hīnayāna, si dice che lo śrāvaka (uditore della voce) passi attraverso quattro stadi. Il primo è srotāpanna (l'entrata nella corrente), il secondo è sakrdāgāmin (chi è soggetto a tornare una volta sola), il terzo è anāgāmin (chi non è soggetto al ritorno), e il quarto ed  ultimo è arhat.

[2] Parole del Maestro Hyakujō. Si veda il cap. 68, Daishugyō.

[3] Cioè, nelle nostre azioni quotidiane.

[4] La vera condizione di tutti gli elementi. Si veda il cap. 43, Shohōjissō.

[5] Lett. “Colui che ascolta”, in origine si riferiva a tutti coloro che avevano udito direttamente l’insegnamento dalla voce del Buddha. Più tardi, la parola śrāvaka fu utilizzata più genericamente per distinguere gli studenti Hīnayāna da quelli Mahāyāna.

[6] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari che assieme ai Sūtra (i discorsi), e al Vinaya (i precetti), forma il Tripitaka, i tre canestri dell’Insegnamento.

[7] Si riferisce ai quattro stadi dello śrāvaka. Il primo è srotāpanna (l’entrata nella corrente); il secondo è sakrdāgāmin (chi è soggetto a tornare una volta sola); il terzo è anāgāmin (chi non è soggetto al ritorno); e il quarto è arhat.

[8] Monaci e monache.

[9] Il Maestro Engo Kokugon (1063-1135), nella linea di trasmissione del Maestro Yōgi Hōe. Ha scritto la “Raccolta della Roccia Blu”. [Yüan-wu K’o-ch’in]

[10] Il Maestro Hyakujō Ekai (749-814), successore del Maestro Baso Dōitsu. [Pai-chang Huai-hai]

[11] Come ad esempio, il famoso: “Tutte le cose sono impermanenti / Tutti i dharma sono privi di sé / Tutte le cose sono colme di sofferenza / Tra la beatitudine del nirvāna”.

[12] Vedi nota 3, pag. 261.

[13] Buddha Kūō, o Re di Vacuità, è il nome del leggendario primo Buddha che apparve durante il kalpa della vacuità. È detto anche Buddha esistente prima del tempo. Infatti tra il fondamento di un mondo e il fondamento del mondo successivo intercorrono quattro kalpa:il kalpa della creazione, il kalpa dell’esistenza, il kalpa della distruzione, il kalpa della vacuità.