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SHIZENBIKU

Un Monaco al Quarto Dhyāna

 

 

L’insegnamento del Maestro Dōgen evidenzia quanto sia facile e pericoloso coltivare idee erronee circa l’insegnamento e i diversi livelli di acquisizione ad esso eventual­mente legati. Viene poi sottolineato come il radicare un’errata vi­sione, conduca inevitabilmente ad errori grossolani e a false credenze come quella che vorrebbe equiparare al Dharma del Buddha gli insegnamenti di Lao-tzu e di Confucio. 

 

Nel settimo volume del Daichido Ron[1] si trova questo discorso del Patriarca Nāgārjuna:

Uno dei discepoli del Buddha si inorgoglì quando rag­giunse il quarto dhyāna,[2] perché ritenne erroneamente di aver conse­guito il quarto Frutto del Sentiero.[3] Egli aveva commesso lo stesso er­rore an­che quando aveva realizzato ognuno dei tre precedenti dhyāna, scam­biandoli per i primi tre Frutti del Sentiero. Alla fine, conseguito il quarto dhyāna, egli divenne così presuntuoso che cessò qualsiasi prassi e addestramento.  Quando giunse in punto di morte, gli si mani­festò lo stato intermedio[4] associato al quarto dhyāna. Il discepolo re­stò in un primo tempo confuso, poi pensò: “Non riesco ad entrare nel nirvāna. Il Buddha mi ha ingannato.” A causa di questo pensiero er­rato lo stato inter­medio associato al quarto dhyāna scomparve, sosti­tuito da quello che conduce all’inferno Abi[5] dove appunto rinacque.

I monaci domandarono al Buddha: “Dove rinacque il monaco?” Il Buddha rispo­se: “Nell’inferno Abi.” Sorpresi, i monaci dissero: “Quel monaco si era diligentemente seduto in zazen ed aveva osservato i pre­cetti. Perché rinacque nell’inferno?” Il Buddha rispose: “Il monaco credeva di aver raggiunto la condi­zione di arhat, mentre aveva sol­tanto realizzato il quarto dhyāna. Egli era orgoglioso del suo conse­guimento e così, quando in punto di morte apparve lo stato inter­medio associato al quarto dhyāna, pensò: ‘Sono un arhat, eppure devo rina­scere come essere umano; il Buddha mi ha ingannato.’ È a causa di questo pensiero errato che il monaco cadde negli inferi.” Il Buddha recitò quindi questi versi:

 

Lo studio del Dharma, l’osservanza dei precetti e la prassi dello zazen non possono, di per sé, estinguere i desideri mondani. C’è grande merito in questi tre, eppure ci è difficile avere fede in essi.

Il monaco denigrò il Buddha e per questo finì negli inferi.”

 

Questo monaco è conosciuto come “Il monaco al quarto dhyāna” o “Il monaco autodidatta”. L’insegnamento è questo: non scambiate il quarto dhyāna con la condizione di arhat. Tutti i seguaci del Dharma del Buddha, siano essi umani o celestiali, conoscono questo episodio perché fin dai tempi di Śākyamuni i maestri indiani e cinesi lo hanno utilizzato per irridere coloro che erroneamente scambiano il falso col vero. Il monaco commise tre errori. In primo luogo, egli non era in grado di distinguere tra i quattro dhyāna e i Quattro Frutti del Sentiero perché era un monaco autodidatta e non si era mai adde­strato sotto un maestro, né aveva cercato la sua guida; non aveva dun­que mai udito la vera Legge. Egli aveva la fortuna di vivere all’epoca di Śākyamuni, eppure non gli aveva mai fatto visi­ta, né aveva mai ascoltato gli insegnamenti di uno dei grandi arhat. Continuando il suo addestramento tutto solo, cadde vittima dell’orgoglio.

Il secondo errore fu di credere di avere man mano ottenuto i Quattro Frutti del Sentiero, mentre si trattava dei quattro dhyāna. Que­sto fu veramente un errore grave perché la successione dei dhyāna è su un piano molto inferiore a quello dei Frutti del Sentiero, e le due cose non devono essere confuse. Anche questo errore derivò dal fatto che il monaco era un autodidatta e non aveva mai incontrato la vera Legge.

Anche un discepolo del quarto Patriarca indiano Ubaki­kuta,[6] che era entrato nel Samgha per la sua profonda fede nel Dharma del Buddha, scambiò il quarto dhyāna con la condizione di arhat. Questo monaco, un giorno, fu invia­to in un altro distretto e Ubakikuta fece sì che egli incontrasse sul suo cammino diverse occasioni per comprendere l’equivoco in cui era caduto.

Dopo aver viaggiato per un certo tratto, il monaco attra­versò una zona disseminata di cadaveri di mercanti, evidente­mente massa­crati dai ladri, e fu assalito dal terrore. Ne dedusse che non poteva aver raggiunto la condizione di arhat ma soltanto il terzo Frutto del Sentiero. Proprio in quel momento, la figlia di uno dei mer­canti truci­dati si avvicinò e gli disse: “Ti prego, portami via di qui.” Il monaco rispose: “È impossibile. Il Buddha ci ha proibito di viaggiare in com­pagnia di donne.” “Allora precedimi e io ti seguirò”, suggerì la gio­vane donna. Il monaco ebbe compassione della ragazza e accettò. Ben presto i due incontrarono sul loro cammino un fiume molto ampio e impetuoso. La donna disse: “Per favore, attraversiamo insieme.” Il monaco acconsentì, e cominciò ad attra­versare a valle, mentre la ra­gazza attraversava più a monte. Improvvisamente la donna scivolò e cadde in acqua, gridando e chiedendo aiuto. Il monaco la rag­giunse e la trasse dalla corrente. Nel prenderla in braccio, sentì la sua pelle morbida e delicata, il corpo giovane e snello, e fu sopraffatto dal desi­derio sessuale. Comprese perciò di non aver raggiunto neppure il terzo Frutto del Sentiero; la passione però aumentava ed egli condusse la giovane in un luogo appartato, dove poter avere un rapporto sessuale.

La giovane donna era in realtà Ubakikuta sotto altra forma. Il monaco, quando se ne accorse, si vergognò profondamente; cadde in ginocchio e si prostrò davanti al suo Maestro. Ubakikuta disse: “Se sei un arhat, come spieghi la tua azione?” Detto questo, lo riportò alla sua comunità e gli insegnò la ceri­monia del pentimento. Il monaco conti­nuò a studiare sotto Ubakikuta e conseguì infine la condizione di ar­hat. Per due volte questo monaco fu costretto a mettere in discus­sione le sue convinzioni, ma non denigrò neppure una volta il Buddha o il Dharma. Da questo punto di vista si dimostrò superiore al monaco protagonista del primo episodio. Il monaco del secondo racconto era ben istruito negli insegnamenti del Buddha e fu perciò in grado di ri­conoscere di non aver raggiunto né il quarto né il terzo Frutto del Sentiero. Se un monaco non studia gli insegnamenti del Buddha, come può com­prendere la natura degli arhat, per non parlare di quella dei Buddha? Un simile monaco inoltre, benché non sia né un Buddha né un arhat, rischia di credere di esserlo. Che grande errore! Sinceri ri­cercatori, non dimenticate di chiarire che cosa sia la Buddhità: que­sto è un punto essenziale.

Un antico Maestro disse: “In linea generale, coloro che stu­diano gli insegnamenti del Buddha conoscono il loro livello di realiz­zazione e, anche se hanno ancora false opinioni, conseguiranno alla fine il risveglio.” Come sono vere queste parole! Conoscere gli inse­gnamenti del Buddha protegge chi nutre false opinioni sia dall’auto-inganno, sia dall’essere ingannato da altri.

Si racconta di un monaco che, illudendosi di aver consegui­to la Buddhità, si aspettava di vedere la stella del mattino, così come era avvenuto per Śākyamuni. Attese molto a lungo, ma la stella non comparve, e allora pensò che un qualche dèmone l’avesse arrestata. Quando infine la stella comparve, il re Brahmā non gli chiese di esporre la Legge come aveva invece fatto con Śākyamuni. Il monaco comprese allora il proprio errore, ma non del tutto, perché continuò a pensare di aver almeno raggiunto la condizione di arhat. Qualcuno, più tardi, lo criticò facendolo arrabbiare; capì perciò di non aver raggiun­to neppure que­sto livello. Ancora una volta, tuttavia, non riuscì a comprendere l’ampiezza del suo errore e si convinse di aver raggiunto il terzo Frutto del Sentiero. Un giorno però, vedendo una giovane donna, fu assalito dal desiderio sessuale e comprese così di non aver conseguito neppure questo stadio. Quel monaco riuscì a riconoscere il suo errore perché conosceva gli insegnamenti del Buddha.

Chi, come quest’ultimo monaco, sia ben istruito nel Dharma del Buddha, può riconoscere i suoi errori e porvi pronta­mente rimedio; chi non conosce gli insegnamenti, non è in grado di farlo e resta im­merso nella nebbia, soggetto al ciclo senza fine delle rinascite. Anche il discepolo di Ubakikuta era un monaco ben istruito nel Dharma; pertanto, pur avendo sinceramente creduto di essere un arhat, riuscì in seguito a modificare questa opinione errata. Se solo il monaco autodi­datta avesse passato un po’ di tempo a studiare il Dharma, non avrebbe certo oltraggiato il Buddha quando, al momento della morte, gli ap­parve lo stato intermedio associato al quarto dhyāna. Questo monaco aveva realizzato da molto tempo il quarto dhyāna, ma non sa­peva di­stinguere questo conseguimento dalla condizione di arhat. Quando non riuscì a riconoscere il suo errore, tutto il suo addestra­mento perse di utilità ed egli ne patì le conseguenze.

Il monaco commise un errore cruciale: calunniò il Buddha. Quando, al momento della morte, comparve lo stato intermedio associato al quarto dhyāna, egli avrebbe dovuto accorgersi del suo errore e pentirsi, riconfermando così la sua fede nel Buddha. Essendo però un monaco autodidatta, non conosceva il Dharma e non fu capace di farlo; egli cadde perciò nell’inferno Abi. Anche se questo monaco avesse raggiunto la condizione di arhat, egli non sarebbe comunque stato paragonabile al Tathāgata.[7]

Śāriputra, un venerabile monaco che raggiunse la condi­zione di arhat, era famoso per la sua grande saggezza. Neppure tutta la sag­gezza degli abitanti del mondo intero, esclusa quella del Tathā­gata, valeva un sedicesimo della sua. Egli, grazie a questa grande sag­gezza, nemmeno una volta dubitò del Buddha, neppure quando il Be­ato esponeva insegnamenti che non gli erano familiari e che non riu­sciva a comprendere pienamente. Al contrario, in queste occasioni egli riba­di­va la sua fede affermando che un dèmone celestiale non sa­rebbe stato in grado di trasmettere insegnamenti così inconsueti.

Il Tathāgata salvò Punyavadharma, un vecchio monaco iniziato all’età di centoven­ti anni, mentre Śāriputra non ci era riuscito; questa è la differenza tra la condizione di Buddha e quella di arhat. Pur ammettendo che tutti gli abitanti della terra siano saggi come Śāriputra, ancora la somma delle loro saggezze non sarebbe paragonabile a quella del Ta­thāgata.

Gli insegnamenti di Confucio[8] e di Lao-tzu[9] non possiedono il me­rito della saggezza del Buddha. Mentre gli studenti del Dharma del Buddha non hanno difficol­tà a comprendere gli insegnamenti di Lao-tzu e Confucio, nessuno dei seguaci di questi due ha mai afferrato l’essenza del Dharma. Oggi molti ritengono che Confucianesimo, Ta­oismo e Dharma del Buddha si equivalgano; è ovvio che costoro non conoscono gli insegnamenti del Buddha.

Con un’ostinata fiducia nella sua errata opinione, il monaco al quarto dhyāna ritenne che il Tathāgata lo avesse ingannato e ripudiò completamente il Dharma. Di fatto egli si comportò stupidamente, non certo meglio dei sei filosofi delle errate dottrine.[10]

Un antico Maestro disse: “Anche durante la vita del Tathā­gata esistevano persone che nutrivano false opinioni, e non c’è da stu­pirsi se il loro numero è molto aumentato dopo la morte del Beato. Senza un grande maestro che insegni loro, essi sono destinati a conservare queste idee.” Perfino alcuni monaci, vissuti all’epoca del Buddha Śākyamuni, nutrivano false opinioni non avendo studiato a fondo i Suoi in­segnamenti. Col passare del tempo, il loro numero è aumentato, specie nelle zone di campagna più isolate dove l’insegnamento stenta ad arri­vare. Come abbiamo visto, perfino certi monaci che hanno rag­giunto il quarto dhyāna talvolta nutrono false opinioni. Non ci si può certo aspettare che avvenga diver­samente per coloro che, invece di aspirare a questo livello, preferiscono notorie­tà, ricchezza e successo come funzionari. Non conoscendo gli insegnamenti del Buddha, molti monaci cinesi contemporanei parlano a casaccio, affermando ad esempio che non c’è alcuna diffe­renza tra Taoismo, Confucianesimo e Dharma del Buddha. Costoro sono proprio degli sciocchi.

Durante l’epoca Chia-tai della dinastia Sung,[11] un monaco chiamato Cheng-shou[12] scrisse il Pu-teng-lu[13] in trenta sezioni e lo sotto­pose all’Imperatore. In questo testo si legge: “Una volta udii il monaco Chih-yuan affermare: ‘La mia Via è simile ad un tripode, le cui gambe sono il Confucianesimo, il Taoismo e il Dharma del Buddha. Se manca una gamba, il tripode cade. Poiché ho rispetto di questo mo-naco, ho scavato più a fondo nel significato di questa frase. Alla fine, ho concluso che l’essenza del Taoismo è la non-discriminazione, l’essenza del Confucianesimo è la sincerità, e l’essenza del Dharma del Buddha è l’auto-realizzazione. Anche se queste tre Vie hanno nomi diversi, essenzialmente sono la stessa cosa.”

Questa falsa opinione non riguarda soltanto Chih-yuan e Cheng-shou: molti altri la pensano allo stesso modo. Di fatto costoro commettono un grande errore, ancora peggiore di quello di confondere il quarto dhyāna con la condi­zione di arhat. Essi non solo oltrag­giano il Buddha e i Tre Tesori, ma negano anche il nirvāna, i tre mondi e il principio di causa ed effetto. Le loro credenze danneggiano il Dharma, così come un’inondazione danneggia un villaggio. Essi non sono certamente migliori di coloro che negano i Tre Tesori, le Quattro No­bili Verità e i Quattro Frutti del Sentiero. Di per sé, l’auto-realizzazione non è il punto fondamentale del Dharma del Buddha. Nessuno, tra i sette Buddha del passato e i ventotto  Patriarchi, ha insegnato questo. Il Sūtra della Piattaforma[14] del Patriarca Enō ne parla, ma questo testo non è attendibile perché è stato manipolato; gli studenti dovrebbero saperlo. Cheng-shou e Chih-yuan consideravano il Dharma del Buddha come una delle gambe di un tripode. Tali sciocchezze dimostrano che essi non co­noscevano il Dharma, neppure in minima parte.

Un antico Maestro disse: “I seguaci dell’Hīnayāna affer­mano che non dovremmo aggrapparci né al sé né agli oggetti esterni. Lao-tzu e Chuang-tzu erano attaccati ad entrambi. Se già la dottrina Hīnayāna non è alla loro portata, come possono sperare di afferrare l’insegnamento Mahāyāna secondo il quale il sé e gli altri sono essen­zialmente vuoti? Le dottrine di Lao-tzu e Chuang-tzu sono molto di­verse da quelle del Buddha. Gli sciocchi, basandosi su una compren­sione super­ficiale degli insegnamenti e attaccandosi all’aspetto formale dello zazen, ritengono che l’insegnamento di Lao-tzu sulla non-discriminazione equi­valga all’insegnamento del Dharma sul non-attaccamento. Costoro, fondandosi sopra una comprensione così limitata, non possono certo sperare di capire la Via del Buddha.” Già molto tempo fa, coloro che avevano una cono­scenza solo superficia­le del Dharma ritenevano che gli insegnamenti di Lao-tzu e Chuang-tzu fossero nella sostanza identici a quelli del Bud­dha; al contrario, chi era ben istruito, immancabilmente respingeva queste due dottrine.

Il Ching-ching-pen-hsing Sūtra dice: “Yen-hui[15] è la rina­scita del Bodhisattva Candraprabha, Confucio è la rinascita del Bodhi­sattva Kuang-ching, Lao-tzu è la rinascita del Bodhisatt­va Kāśyapa.” È a causa di questo sūtra che, fin dai tempi antichi, molti hanno creduto che Lao-tzu e Confucio fossero dei Bodhisattva, mes­saggeri del Buddha. Costoro sono però stati indotti in errore, perché un vecchio maestro ci ha detto che quel sūtra è un falso. Questa ulte­riore prova dimostra che gli insegnamenti di Lao-tzu e Confucio sono diversi da quelli del Buddha. Se anche avessero realizzato la condi­zione di Bodhisattva, ancora, essi non sarebbero uguali al Buddha.

I Buddha si manifestano in forma umana per salvare le per­sone comuni. Queste ultime, compresi Lao-tzu e Confucio, sono nate come esseri umani a causa del cattivo karma e non sono in grado di salvare alcuno. Lao-tzu e Confucio non conoscevano la legge di causalità nei tre mondi, ed impartirono soltanto insegna­menti su argo­menti mondani quali la lealtà nei confronti dell’Imperatore e la devo­zione filiale. I loro insegnamenti non affrontano argomenti che vanno al di là della vita presente. Non sono diversi da qualsiasi altro profano che neghi il principio di causa ed effetto.

Confucio e Lao-tzu non erano in grado di comprendere neppure gli insegnamenti dell’Hīnayāna, per non parlare del Mahāyāna. Le perso­nalità del passato hanno dedicato loro ben poca attenzione. Soltanto Cheng-shou, Chih-yuan e altri scioc­chi hanno sostenuto che i Tre Insegnamenti sono in realtà uno solo. Sulla base di quale autorità hanno affermato questo? La loro conoscenza del Dharma del Buddha è nulla. Suggerisco loro di interrompere queste discussioni prive di significato, di cercare un buon maestro e di cominciare ad addestrarsi nella Via. Costoro sono meno istruiti di quei monaci che confondono il quarto dhyāna con la condizione di arhat. Queste opinioni sono però caratte­ristiche del nostro tempo, e ciò è veramente deplorevole.

Un antico Maestro disse: “Confucio, assieme all’Imperatore Chou-kung-tan,[16] ai tre Imperatori fondatori ed ai loro cinque successori[17] pensa­vano che la prosperità della nazione e il benessere degli individui fos­sero lo scopo fondamentale; per questo i loro insegnamenti si basano sulla devozione filiale e la lealtà alla nazio­ne. Diversamente dagli in­segna­menti buddhistici che si estendono ai tre periodi di tempo, le dottrine di questi filosofi riguardano solo l’attuale esistenza. Come potrebbero essere vere?” Questo Maestro conosce bene sia il Dharma, sia le que­stioni profane. Gli insegnamenti di Śākyamuni sono insupe­rati e il merito offerto ai Suoi monaci è grande. Gli inse­gnamenti dei re Ten­rinnō,[18] Brahmā e Śakrendra sono di ampia por­tata, e anche que­sti producono molto merito, seppu­re più limitato. Sotto ogni punto di vi­sta, costoro sono ben superiori ai tre Imperatori ed ai loro cinque suc­cessori. Le opere di Lao-tzu e Confucio valgono poco e sono infe­riori anche ai quattro Veda e alle diciotto scritture del Brahmānesimo, per non parlare degli insegnamenti Hīnayāna; non si possono certo pa­ra­gonare agli insegnamenti del Buddha. Molti cinesi ritengono che Con­fucianesimo, Taoismo e Dharma del Buddha siano in realtà una sola dottrina. È una vera sfortuna che un piccolo, remoto Paese[19] sia diven­tato terreno fertile per simili opinioni errate.

Il quattordicesimo Patriarca Nāgārjuna disse: “I grandi ar­hat e i pratye­kabuddha sono consapevoli di periodi di tempo della du­rata di ottantamila kalpa.[20] I Buddha e i Bodhisattva sono consapevoli di pe­riodi di durata illimitata.” Confu­cio e Lao-tzu, invece, non cono­sce­vano nulla che andasse al di là dell’attuale esistenza. Non erano neppure consapevoli di un periodo lungo un kalpa, per non parlare di periodi di cento, mille o ottantamila kalpa. Come possiamo parago­narli ai Buddha e ai Bodhisattva, che conoscono un numero illimitato di kalpa come il dorso della loro mano? Confucio e Lao-tzu sarebbero pari al Buddha: che sciocchez­za! Dovremmo coprirci le orecchie quando sentiamo discorsi sull’unicità dei Tre Insegnamenti, perché davvero questa è la più becera tra tutte le false opinioni.

Chuang-tzu disse: “Nella vita tutto avviene casualmente: na­scere in una condizione nobile o umile, gioia e dolore, positivo e ne­gativo, guadagno e perdi­ta.” Questa tesi è identica a quella di certi in­diani delle dottrine errate, i quali so­stengono che tutto avviene in modo casuale. Ovviamente costoro non hanno compreso che la nostra condizione sociale, il grado di appagamento e così via, sono determi­nati dal karma, buono o cattivo, generato nel passato. Inoltre, essi non sanno che questo karma si divide in due categorie.[21] Giacché ignorano sia il passato sia il futuro, la loro capacità di comprendere il pre­sente è molto dubbia. Chi, dunque, può sinceramente sostenere che i loro insegnamenti sono identici a quelli del Buddha?

Molti pensano questo: “L’illuminazione del Buddha coin­volge il mondo intero, dunque è manifesta anche in un granello di pol­vere. Questa illumina­zione include soggettività e oggettività ed è per­ciò svelata da montagne, fiumi, terra, sole, luna e stelle, dalle quattro illusioni e dai tre veleni.[22] Le quattro illusioni e i tre veleni, dun­que, sono parte del Dharma e si può vedere il Tathāgata nelle montagne e nei fiumi. Un granello di polvere incorpora l’intera verità, ed ogni azione spontanea è la manifestazione del supremo risveglio. Questo è l’insegnamento trasmesso dai Patriarchi.” Oggi, in Cina, coloro che sostengono queste opinioni sono numerosi come le piante di riso e di canapa, come i bambù e i giunchi. Non si sa a quale linea di trasmissione appartengano, ma è chiaro che il Dharma del Buddha non è loro familiare.

Affermare che “L’illuminazione del Buddha coinvolge il mondo” è affermare il vero, ma il modo in cui la gente comune os­serva fiumi, montagne e terra è completamente diverso dal modo in cui li osserva il Buddha. Quando vediamo un granello di polvere, ve­diamo il mondo intero; se così fosse, allora la gente comune sarebbe uguale ai loro re. Perché non capovolgono la frase, dicendo: “Quando vediamo il mondo intero vediamo un granello di polvere?” Se queste parole ap­partenessero al Dharma, né i Buddha né i Patriarchi sareb­bero apparsi al mondo e né voi né io potremmo mai conseguire il ri­sveglio. Anche quando gli esseri senzienti capiscono che la vita è non-vita, la loro comprensione è comunque diversa da quella dei Buddha e dei Patriar­chi.

Il Venerabile Paramārtha[23] disse: “La Cina è fortunata per due motivi: non ci sono dèmoni né errate dottrine.” È chiaro che queste parole provengono da un brahmāno. L’affermazione è vera se intende dire che in Cina non ci sono profani dotati di poteri straordi­nari e non ci sono dèmoni. Ma in quel Paese ci sono certamente pro­fani dalla mente di dèmone. La Cina è un piccolo, remoto Paese, molto diverso dall’India centrale; non vi è dunque da stupirsi che, malgrado alcuni dei suoi abitanti siano studenti della Via, nessuno di essi abbia conseguito un ri­sveglio paragonabile a quello di coloro che si addestrano in India.

Un antico Maestro disse: “Poiché (solo) i laici sono recluta­bili come fun­zionari al servizio dell’Imperatore, molti monaci Bud­dhisti rinunciano all’adde­stramento e cominciano a studiare gli inse­gnamenti di altre dottrine. Essi cercano di migliorare gli insegna­menti di Lao-tzu e Chuang-tzu iniettando loro un po’ di saggezza buddhi­stica; il risultato è un inutile intruglio che confonde quei novizi che non rie­scono ancora a distinguere il vero dal falso. La situazione peg­giora ulteriormente quando si cominciano ad inserire anche gli in­se­gnamenti dei Veda.”

I veri insegnamenti sono a disposizione di tutti. Solo dei prin­cipianti disinformati come Chih-yuan e Sheng-shou non riescono a riconoscerli. Nessuno dei due aveva la minima comprensione del Dharma del Buddha. Davvero, sono soltanto degli stupidi. Oggi in Cina nessuno comprende che gli insegnamenti del Buddha sono insegnamenti supremi. Non una, e neppure mezza persona, riconosce che essi sono l’unico puro e vero insegnamento, eppure coloro che affer­mano di essere i discendenti del Buddha sono numerosi come le piante di riso e di canapa, come i bambù e i giunchi. Solo il mio defunto Maestro Nyojō aveva capito che il Dharma del Buddha è l’insegna-mento fondamentale, e lo predicò giorno e notte. Nessuno dei cosiddetti insegnanti di sūtra e shāstra[24] ha mai avuto la più pallida idea di questo. Durante gli ultimi cento anni, costoro si sono limitati a stu­diare i metodi di addestramento dei monaci Zen. Credono veramente di poter comprendere la verità in questo modo? Come sono sciocchi!

Confucio disse: “La verità è compresa in modo innato.” Ben­ché una tale capacità sia attribuita alle reliquie del Buddha,[25] que­sta asserzione non è poi convalidata dagli insegnamenti del Buddha. Né Lao-tzu né Confucio esposero insegnamenti simili al Dharma.  È im­possi­bile unire queste tre dottrine, per quanto si cerchi di farlo. Stu­diatele a fondo e lo capirete da soli.

Nei Discorsi di Confucio è scritto: “Esistono diversi livelli di compren­sione della Verità. Gli uomini che la conoscono in modo in­nato sono i migliori, seguono coloro che la comprendono attraverso lo studio, poi coloro che la comprendono dopo un difficile studio. Ven­gono infine coloro che non la com­prendono neppure dopo uno studio difficoltoso.” La comprensione innata della Verità è impossi­bile per­ché contraddirebbe la legge di causa ed effetto. Una volta pervenuto al quarto dhyāna, quando il monaco dubitò del Buddha cadde negli inferi. Coloro che approvano le opinioni di Confucio fa­ranno la stessa fine, anche se può darsi non debbano attendere la loro esistenza successiva. Questa sarà anche la nostra sorte se non abban­doneremo simili errate opinioni.

Né Lao-tzu né Confucio sapevano qualcosa dei tre periodi di tempo o del principio di causalità, e nemmeno conoscevano uno qual­siasi dei continenti, per non parlare di tutti e quattro.[26] Non c’è dun­que da stupirsi che non conoscesse­ro i sei paradisi inferiori, i tre mondi, le migliaia, i milioni ed i miliardi di mondi. Mentre il Tathāgata ha gover­nato migliaia di miliardi di mondi, Lao-tzu e Confu­cio furono soltanto sudditi nella loro stessa terra. Come potrebbero essere simili al Tathā­gata?

Il Tathāgata era rispettosamente protetto, giorno e notte, dai re Brahmā, Śakrendra e Tenrinnō. Questi re chiedevano continua­mente che il Buddha predi­casse il Dharma a loro beneficio. Lao-tzu e Confucio non avevano questo potere. Poiché non conoscevano la Via ed erano soggetti alla rinascita, non furono diversi da qualsiasi altra persona non iniziata al Dharma del Buddha. Di sicuro non avevano chiarito la Via. Come si può anche solo pensare che simili persone siano uguali al Buddha?

Poiché non erano risvegliati, Lao-tzu e Confucio non erano in grado di risvegliare altri. Sono chiaramente inferiori al Buddha sotto tutti gli aspetti, e anche pensare che i Tre Insegnamenti si equi­valgano è ridicolo. A differenza del Buddha, che era in grado di pene­trare la più piccola particella e di misurare la minima unità di tempo, Lao-tzu e Confucio non conoscevano i punti estremi del tempo e dello spazio. Essi non erano affatto diversi dalla gente comune e furono certo in­feriori a coloro che hanno conseguito il primo Frutto del Sentiero, per non parlare del secondo, terzo e quarto. C’è qualcuno che può seria­mente affermare che essi sono alla pari con il Buddha?

Soltanto uno studente inesperto potrebbe paragonare questi insegnanti al Buddha. Poiché non sapevano nulla  dei tre mondi e dei limiti estremi del tempo, e non essendo riusciti ad andare al di là del concetto di dualismo, Lao-tzu e Confucio furono inferiori anche alle divinità della Luna, del Sole e dei Paradisi, ai quattro Re Guardiani e a tutti gli altri dèi celestiali. Coloro che paragonano questi insegnanti al Buddha mostrano semplicemente la loro incapacità di distinguere il sacro dal profano.

Il Lieh-chuan[27] afferma: “Kuan-ling Yin-hsi era un alto funzio­nario governativo della dinastia cinese Chou,[28] nonché esperto astro­logo. Un giorno, mentre era in viaggio verso le regioni orientali per indagare su un inconsueto mutamento atmosferico, incontrò Lao-tzu. I due cominciarono a conversare. Yin-hsi chiese a Lao-tzu di scri­vere un libro che contenesse non più di cinquemila parole,[29] mentre egli scrisse un’appendice in nove sezioni al primo testo, il Hua-hu-ching,[30] contenente un’esposizione completa del pensiero taoista. In se­guito, Lao-tzu decise di recarsi nel distretto di Kuan-hsi, e Yin-hsi gli chiese di poterlo accompagnare. Lao-tzu rispose: ‘Dimostrami che la tua richiesta è sincera; portami le teste di sette persone, e tra esse quelle dei tuoi genitori’. Yin-shi obbedì ma, presentatosi con le teste richieste, scoprì che si erano trasformate in teste di cinghiale.”

Un antico Maestro ha detto: “I libri secolari del Confuciane­simo raccoman­dano il culto degli antenati attraverso la venerazione di statue scolpite a loro somiglianza. Gli insegnamenti del Tathāgata si fondano su una profonda compassio­ne. Lao-tzu, al contrario, chiese a Yin-hsi di uccidere i propri genitori. L’origine dei suoi insegnamenti è veramente un mistero.”

Ancora ai giorni nostri,  molti pensano che Lao-tzu sia pari a Śākyamuni. Che sciocchezza! Sono davvero addolorato per queste persone. Né Confucio né Lao-tzu equivalgono al Re Tenrinnō, che esercita le dieci buone azioni[31] per condurre alla Via la gente comune, e neppure sono superiori ai tre Imperatori fondatori né ai cinque suc­cessori, i quali a loro volta sono inferiori al Re Tenrinnō, il sovrano di un miliardo di mondi, il padre di mille bambini, il proprietario dei sette tesori e dei quattro generi di ruota.[32]

Tutti i Buddha e i Patriarchi hanno fondato i loro insegnamenti sulla venerazione e il rispetto dei propri genitori, del maestro e dei Tre Tesori, ed hanno poi insegnato ad esercitare la compassione verso i malati e i poveri. Uccidere i propri genitori non è mai stato alla base di qualche loro insegna­mento. In che senso, dunque, gli insegna­menti di Lao-tzu sarebbero identici a quelli del Buddha? Chi uccide i propri genitori precipita agli inferi, nell’esistenza successiva; questa è la legge del karma. Non ha alcuna importanza ciò che Lao-tzu può aver detto sulla non-discriminazione; chi uccide i propri genitori cade negli inferi, è evidente.

Nel Keitoku-dentō-roku[33] è scritto: “Eka, il secondo Pa­triarca, disse una volta: ‘Lao-tzu e Confucio non hanno fatto altro che fissare regole per la moralità pubblica ed il decoro. È un vero pec­cato. Né Lao-tzu né Chuang-tzu hanno parlato della vera Via. So che Bodhi­dharma si trova ora nel tempio di Shōrinji, che non è molto lontano da qui. Mi recherò lì immediatamen­te per iniziare a studiare sotto di lui’.”

Oggi il Dharma è presente in Cina per merito del secondo Pa­triarca. Anche se fu Bodhidharma, il primo Patriarca, a trasmettere il Dharma dall’India alla Cina, la stirpe non sarebbe proseguita se Eka non fosse diventato suo discepolo e non avesse ricevuto e poi trasmesso il Dharma. Dunque il secon­do Patriarca occupa una posizione particolare, rispetto a tutti gli altri.

Il Keitoku-dentō-roku riferisce ancora: “Eka visse per di­versi anni nel distretto di Loyang. Egli era saggio, compassionevole e di va­sta cultura; un maestro che conosceva profondamente la verità. Non c’è confronto possibile tra questo dotto Patriarca e gli uomini d’oggi. Dopo aver realizzato il risveglio e rice­vuto la trasmissione del Dharma, egli ribadì la sua opinione sugli insegnamenti di Lao-tzu e Con­fucio.” Il secondo Patriarca negò sempre che questi insegnamenti fos­sero simili a quelli del Buddha; ciononostante, molti suoi discendenti afferma­no il contrario. I veri discepoli, tuttavia, sanno riconoscere quale sia il valore delle dottrine e respingono con disprezzo questa falsa opinione.

Un certo Lun-li, un contemporaneo del Tathāgata che non seguiva il Dharma del Buddha, si credeva l’uomo più saggio del mondo. Una volta, spinto da cinquecento nobili, scelse cin­quecento domande difficili da sottoporre al Buddha. Quando lo incontrò gli chiese: “La Via è unica o molteplice?” “Unica” rispose il Tathāgata. Lun-li proseguì: “Ciascuno dei numerosi insegnanti proclama che la sua è la vera Via, critica gli insegnamenti altrui e difende i meriti dei propri. Così la Via sembra essere molteplice.” In quel mo­mento giunse un discepolo del Buddha di nome Mrgaśirsa. Il Buddha chiese a Lun-li: “Tra tutti gli insegnanti, quale rispetti di più?” “Mrgaśirsa”, rispose Lun-li. “Se i suoi insegnamenti sono i migliori” re­plicò il Buddha “perché egli li ha abbandonati per diventare mio allievo?” Riconoscendo Mrgaśirsa, Lun-li si vergognò molto. Si prostrò da­vanti al Buddha e chiese di entrare nel Samgha. Il Buddha rispose con questi versi:

 

"Ognuno, preso dalle proprie opinioni,

critica la via degli altri.

Nell’ignoranza, si disputano meriti e demeriti:

i vincitori hanno in premio l’arroganza,

i perdenti lo sconforto.

Un saggio non partecipa a questo gioco.

Lun-li! Dovresti sapere che la Via dei miei discepoli

trascende forma e non-forma.

Che cosa cerchi dunque?

Rifiutare il mio insegnamento è rifiutare la Verità.

È difficile conoscere la Verità,

e per farlo dobbiamo abbandonare noi stessi.”

 

Queste sono le parole d’oro del Buddha Śākyamuni. Credendo che esistano altri insegna­menti simili a quelli del Buddha, gli sciocchi che vivono in oriente voltano le spalle al Dharma. Questo è un grande errore: è denigrare il Buddha e il Dharma.

Mrgaśirsa, Lun li e Mahākausthila[34] erano tutti uomini intel­ligenti, ben più saggi di chiunque altro in Cina, compresi Lao-tzu e Confucio. Essi rinun­ciarono alla propria comprensione personale della Via e divennero monaci del Buddha. È una colpa karmica anche il solo ascoltare chi ritiene che gli inse­gnamenti di Confucio, di Lao-tzu e del Buddha siano simili; lasciateli soli a sottoscrivere questa visione. Sia gli ar­hat sia gli śrāvaka alla fine diventano Buddha; nessuno è mai rima­sto per sempre un arhat. Confucio e Lao-tzu sono lo stesso che il Buddha – come può essere così? Credere questo è davvero un grande errore.

Il Tathāgata è il supremo tra tutti. Tutti i Buddha e tutti i Patriar­chi, i grandi Bodhisattva, i re Brahmā e Śakrendra, i ventotto Patriarchi dell’India e i sei della Cina, così come i loro numerosi disce­poli, lo sanno e perciò lo venerano. Parla soltanto per ignoranza chi afferma che gli insegna­menti di Lao-tzu e Confucio sono identici a quelli del Buddha.

       

 

Testo compilato da Ejō durante il ritiro estivo del 1255.[35]



[1] “Discorso sulla Grande Saggezza”, è il commento al Mahā Prājñāparamita Sūtra attribuito a Nā­gārjuna.

[2] I dhyāna, o jhāna, sono otto stati o condizioni della psiche. I primi quattro sono relativi al mondo della forma sottile, gli ultimi quattro sono relativi al mondo privo di forma. “Allora, abbandonata felicità e pena, così come gioie e tristezze passate, nel privo di pena, nel privo di felicità, nella totale purezza dell’animo equanime e vigile, egli consegue il quarto jhāna e vi dimora”…(Sāmaññaphalasutta).

[3] Ovvero la condizione di Arhat, l’ultimo dei quattro stadi. Nel Buddhismo Hīnayāna, si dice che lo śrāvaka (uditore della voce) passi attraverso quattro stadi o risultati. Il primo è srotāpanna (l’entrata nella corrente), il secondo è sakrdāgāmin (chi è soggetto a tornare una volta sola), il terzo è anāgāmin (chi non è soggetto al ritorno), e il quarto è arhat

[4] Dal sanscrito antarā-bhava, lo stato intermedio tra la morte e la successiva rinascita.

[5] Dal sanscrito avīci-niraya.

[6] Il Maestro Upagupta, quarto Patriarca dell’India. Si veda il cap. 52, Busso.

[7] Lett. “Così arrivato”.

[8] Kung-tsu (555-479 a.C.), il fondatore del Confucianesimo.

[9] Lao-tzu (6° secolo a.C.), il fondatore del Taoismo.

[10] Pūrana-kassapa (che negava l’esistenza di dèi e dèmoni); Makkali-gosāla (un fatalista); Sañjaya-velatthiputta (uno scettico); Ajitakesakambarin (un materialista); Pakuda-kaccāyana (che spiegava l’Universo attraverso sette fattori elementari); e Nigantha-nātaputta (il fondatore del Jainismo).

[11] 1201-1204.

[12] Il Maestro Rui-an Shoju (1141-1208), successore del Maestro Getsudo Dōshō.

[13] La Raccolta della Torcia Universale. Una raccolta di biografie di illustri monaci e laici.

[14] Il Rokuso-dankyō. Questo testo contiene gli insegnamenti, i detti, le letture e le poesie del Sesto Patriarca.

[15] Yen-hui (521-490 a.C.), uno dei discepoli principali di Confucio.

[16] Il quarto figlio dell’Imperatore Wen della dinastia Chou. Confucio lo considera un sovrano ideale.

[17] Cinque figure leggendarie che, secondo la mitologia cinese, insegnarono alla popolazione i fondamenti della civiltà.

[18] Tenrinnō, dal sanscrito cakravarti-rāja, “Re dalla ruota che gira”.  Nella antica mitologia indiana, vi sono quattro di questi re che governano sui quattro continenti che circondano il Monte Sumeru. Ciascuno di essi possiede una preziosa ruota o cakra.

[19] Può sembrare strano che nel testo si definisca la Cina come “Un piccolo e remoto Paese”; come si vedrà più avanti in questo stesso capitolo, tale valutazione è espressa in rapporto all’India, percepita come Paese molto più civile e centro di irraggiamento del Dharma del Buddha.

[20] Un kalpa indica un tempo infinitamente lungo; rappresenta infatti un ciclo cosmico pari a circa trecentoventi milioni di anni. Si veda il Sūtra del Loto, pag. 60.

[21] Una, che produce differenze sul piano generale, per esempio il tipo di rinascita, e una che produce differenze sul piano individuale, per esempio il sesso.

[22] Le quattro illusioni sono: che il mondo fenomenico sia permanente, che l’esistenza mondana sia piacevole, che il mondo fenomenico sia puro, che esista una identità individuale. I tre veleni sono: desiderio, ira, e ignoranza.

[23] Paramārtha (449-569), nativo dell’India occidentale, giunse in Cina nel 546 d.C. su invito dell’Imperatore Wu della dinastia Liang. Fondò la scuola Shē-lung e tradusse numerosi testi buddhistici.

[24] Sono discorsi o analisi filosofiche dei contenuti di un Sūtra.

[25] Si veda il Sūtra del Loto, pag. 91.

[26] I quattro continenti, attorno al Monte Sumeru, sono: Jambudvīpa (a sud), Pūrva-videha (a est), Apara-godāna (ad ovest), e Uttara-kuru (a nord).

[27] Un’antologia di biografie riguardanti Lao-tzu e i suoi discepoli.

[28] La dinastia prevalente in Cina, dal 1122 a.C. al 222 a.C..

[29] Noto poi come Tao-te Ching.

[30] Un’opera che si dice scritta da Lao-tzu, il cui scopo era di dimostrare la superiorità dei suoi insegnamenti rispetto al Dharma del Buddha.

[31] Le dieci buone azioni sono l’astenersi dalle dieci cattive azioni, che sono: l’uccisione, il furto, l’adulterio, la menzogna, un linguaggio ambiguo, l’uso di parole inutili, l’avidità, l’ira, il coltivare errate visioni.

[32] D’oro, d’argento, di rame, e di ferro.

[33] Una raccolta delle biografie di 1701 maestri  indiani e cinesi, scritta nel 1004 dal monaco cinese Tao-hsuan.

[34] Lo zio di Śāriputra. Era uno dei dieci discepoli principali del Buddha.

[35] Due anni dopo la morte del Maestro Dōgen.