Introduzione   |   Indice sinottico   |   Capitoli   |   Ricerca   |   Contatti

(30)

KANGIN

Leggere i Sūtra

 

 

Nella prima parte di questo capitolo, il Maestro Dōgen espone il suo insegnamento sulla natura dei sūtra e sul loro profondo significato, attraverso commenti ai vari kōan degli antichi maestri. Egli sottolinea che leggere i sūtra non può essere limitato ai sūtra scritti, in quanto la Natura stessa e l’intero Universo non sono altro che un sūtra. La seconda parte è invece de­dicata ad una dettagliata descrizione della cerimonia della lettura dei sūtra, in uso in quei tempi.

 

Nella prassi e illuminazione del supremo e perfetto risveglio, a volte si utilizza l’insegna­mento di un maestro, a volte l’insegnamento conte­nuto nei sūtra. ‘Maestro’ è l’intero sé dei Buddha e dei Patriar­chi, ‘sūtra’ è l’intero sé dei sūtra. Dun­que, abbiamo il sé di tutti i sū­tra. ‘Sé’ non è una qualche limita­ta identità, ma è attiva intuizione il­luminata e scrit­tura vivente. La prassi e illumi­nazione dei Buddha e dei Patriarchi è costituita dal ri­cor­dare, legge­re, salmodiare, co­piare, ricevere e custodire i sū­tra.

È tuttavia difficile venire a contatto con i sūtra buddhi­stici. In tutti i paesi di questo mondo perfino il solo titolo dei sūtra si sente di rado. Anche tra i Buddha, i Patriar­chi e i loro discendenti è diffi­cile udirne perfino il solo il nome. Se non siete un Buddha o un Patriarca non potete vedere, udire, leggere, salmodiare o capire i sūtra.

Studiando i Buddha e i Patriarchi, gradualmente diveniamo capaci di studiare i sūtra. Allora, le facoltà dell’udire, del vedere, del gu­stare, dell’odorare, e la comprensione della totalità di corpo e mente, rea­lizzano l’udire, il ricevere, il custodire e lo spiegare i sūtra. Chi cer­ca solo la fama e chi spiega le dottrine dei profani, non po­trà mai attuare i sū­tra buddhistici nella pra­ssi. Questi sūtra sono stati tra­smessi da alberi e pie­tre, e sono stati conosciuti fin nelle risaie e nei villaggi. Essi sono stati proclamati ovunque, da un capo all’altro di va­sti reami e nell’intero Uni­verso.

Il Grande Maestro Yakusan Kodō[1] non teneva da tempo un di­scorso sul Dharma. Il segretario ge­nerale gli disse: “Tutti i monaci at­tendono di udire il tuo compas­sionevole insegna­mento.” Yakusan disse: “Suona il gong e riuni­sci l’assemblea.” Il segretario eseguì e subito tutti i monaci si riunirono. Allora Yakusan entrò nella Sala del Dharma, sedette silenziosamente per un po’, poi si alzò e tornò nel suo alloggio. Il se­gretario generale lo seguì e disse: “O monaco! Hai accettato di parlare ma poi te ne sei andato senza dire una sola pa­rola. Perché?” Yakusan rispose: “I sūtra hanno maestri di sūtra, le dot­trine dell’abhidharma hanno studiosi dell’abhidharma.[2] Perché ti stupi­sce ciò che ha fatto questo vecchio monaco?” Yakusan inten­deva così affermare che le scrit­ture vi­venti hanno maestri di scrit­ture vi­venti, e che la visione illuminata ha maestri di visione illumi­nata. Nondimeno, il segretario avrebbe dovuto dire a Yakusan: “Non mi meraviglio certo per le vo­stre a­zioni. Approposito, voi quale tipo di ma­estro sie­te?”

Una volta, Hōtatsu, un monaco la cui princi­pale oc­cupa­zione era il salmodiare continuamente il Sūtra del Loto, si recò dal Patriarca Daikan,[3] del monte Sōkei, nel Koshū. In quella occasione il Patriarca recitò questa strofa:


Se la mente è illusa, il Sūtra del Loto ci fa girare;

se la mente è illuminata, facciamo girare il Sūtra del Loto.

Per quanto a lungo noi salmodiamo,

se non chiarifichiamo il sé,

parole e lettere ostruiranno l’essenza.

Il pensiero senza-pensiero è vero.

Il pensiero cosciente è falso.

Abbandona esistenza e non-esistenza

e sempre procedi col carro del bue bianco.” [4]


Dunque, se la mente è illusa il Sūtra del Loto fa girare noi, se invece la mente è illuminata noi facciamo girare il Sūtra del Loto. Trascendendo il­lusione ed illuminazione, il Sūtra del Loto fa girare il Sūtra del Loto.

Udendo questa strofa, Hotatsu fu colmo di gioia e recitò i suoi versi:


Più e più volte ho salmodiato i sūtra;

ora un solo verso di Sōkei me li ha fatti dimenticare tutti.

Se non abbiamo chiarito

l’apparire di Śākyamuni in questo mondo,

non possiamo essere liberi dalla rinascita.

Vi sono carri tirati da pecore, daini e buoi;

inizio, metà e fine sono colmi di virtù.

Chi sa che, all’interno di questa casa in fiamme,

si trova l’originario regno del Dharma?”


Allora il Patriarca disse: “D’ora in poi ti chiamerai il Mo­naco che Legge i Sūtra.”

Dovremmo sapere che nella Via del Buddha un simile mo­naco esiste. Questo è il puntare diretto dell’antico Buddha Sōkei. Im­parare a memoria non è consapevolezza e nep­pure non consapevo­lezza, né esistenza né non ­esistenza. Dobbiamo custodire e studiare a memoria i sūtra, giorno e notte, attra­verso kalpa illimitati; da sūtra a sūtra non vi è altro che sūtra.

Il Venerabile Prajnātāra, ventisettesimo Patriarca dell’India orientale, fu invitato a pran­zo dal re. Il re gli chiese: “Tutti predi­cano ogni genere di sūtra, eccetto te. Perché?” Prajnātāra allora disse: “Per­dona le mie povere parole, ma la metterei così:

 

Nell’espiro il mio sof­fio non è turbato da eventi o da condi­zioni, e nell’inspiro non dimoro nel mondo della forma condizionata.

Ininter­rottamente proclamo il sūtra della quiddità, ed esso comprende mi­lioni e milioni di volumi, non uno o due’.”

 

Il Venerabile Prajnātāra piantò in tal modo i semi della prassi nell’India orientale. Egli era il ventisettesimo Pa­triarca discendente da Mahākāśyapa. Trasmise i beni fami­liari dei Buddha: le loro teste, oc­chi illuminati, pugni, narici, ba­stoni, ciotole per l’elemosina, abiti, ossa, mi­dollo ecc. Egli è il nostro Pa­triarca e noi siamo i suoi discen­denti. L’essenza dell’afferma­zione di Prajnātāra è che, non solo il suo re­spiro non è tur­bato da condizioni esterne, ma anche che le condizioni esterne non sono tur­bate. Condizioni esterne quali testa e occhi, corpo e mente, non sono per nulla turbate da condizioni esterne.

Non turbate qui significa completamente turbate.[5]  Ben­ché il re­spiro esalato sia una condi­zione esterna, esso non è turbato da condizioni esterne. Benché il signifi­cato di espirare e inspirare sia ri­masto ignoto per innu­merevoli kalpa, esso è ora stato reso noto, per la prima volta, da espressioni quali “Non dimorante nel mondo della forma” e “Non turbato da condizioni esterne.”

Nelle condizioni esterne abbiamo la possi­bilità di studiare l’inspirare. Questa possibi­lità non esiste nell’eterno passato o fu­turo, ma nel presente. L’insieme dei cinque skandha è il mondo della forma condizio­nata, ovvero, forma, percezione, sensazione, predisposizione, coscienza. Non dimorate nei cinque skandha; vi tro­vate in un mondo dove essi non compa­iono. Qui l’importante è che i sūtra proclamati non ammontano ad uno o due, ma milioni e milioni. Milioni e milioni è una quantità enorme che ha anche un si­gnificato diverso.

Un solo respiro nel quale non dimoriamo nel mondo della forma condizionata, contiene milioni di volumi. Ep­pure ciò non co­sti­tuisce una grande quan­tità di saggezza, né una condizione liberata. Tra­scende possesso o non-possesso di co­noscenza e sag­gezza. È semplicemente la prassi e il risveglio dei Buddha e dei Patriarchi; è la loro pelle, car­ne, ossa, midollo, occhi illuminati, pugni, testa, na­rici, bastoni e scacciamosche.

Una volta, un’anziana devota che aveva fat­to una cospicua donazione, chiese al Grande Maestro Shinsai,[6] nel Jōshū, di leggere l’intero Tripitaka.[7] Jōshū scese dal seggio e vi girò attorno una volta. Quindi disse al messaggero dell’anziana signora: “Ho terminato di leggere il Tripitaka.” Al­lora il messaggero tornò dalla signora e le rac­contò l’accaduto. Essa disse: “Ho chiesto che leggesse l’intero Tripitaka. Perché ne ha letto solo metà?”

Possiamo così vedere con chiarezza che sia l’intero Tripitaka, sia mezzo Tripitaka, sono i tre sūtra[8] dell’anziana signora. “Ho fi­nito di leggere il Tripitaka” è la comprensione che Jōshū ha dei sū­tra. In generale, leggere il Tripitaka è il camminare di Jōshū at­torno al suo seggio, ed è il camminare del seggio attorno a Jōshū. Jōshū cam­mina attorno a Jōshū, il seggio cammina attorno al seggio. Tuttavia, leggere il Tripitaka non è soltanto cam­minare attorno al seggio.

C’è un’altra storia molto simile. Il Grande Maestro Jinshō[9] del monte Daisai, nell’Echū, era allievo del Grande Maestro Dai-an di Chokeiji. Una volta, un’anziana di­scepola fece una donazione e gli chiese di leggere l’intero Tripitaka. Daisai si alzò, girò una volta at­torno al seggio e disse al messaggero della don­na: “Ho finito di leg­gere il Tripitaka.” Il messag­gero tornò dalla signora e riportò l’acca­duto. Ella disse: “Gli ho chiesto di leggere l’intero Tripitaka. Perché ne ha letto solo mezzo?”

Qui non dovremmo studiare il muoversi di Daisai attorno al seggio, né il muoversi del seggio attorno a Daisai. Egli non stava cer­cando di mo­strare la perfezione delle scritture o della visione illumi­nata del Buddha. Il suo girare era il girare del mondo-del-Dharma. Tuttavia, l’anziana signora possedeva, o no, la capacità di compren­derlo? “Ne ha letto solo mezzo” non è suf­fi­ciente, anche se le è stato tra­smesso dal suo maestro; piuttosto, avrebbe dovuto dire: “Gli ho chie­sto di leggere l’intero Tripitaka. Perché è sceso così prontamente dal suo seggio?” Anche se avesse detto ciò senza riflettere, sarebbe co­munque stata una persona in possesso dell’intuizione illuminata.

Una volta, un ministro invitò a pranzo il Patriarca Tōzan.[10] Il ministro fece una donazione e chiese a Tōzan di leg­gere il Tripitaka. Tōzan sce­se dal suo seggio e si inchinò al mi­nistro. Il mi­nistro restituì l’inchino. Allora Tōzan lo afferrò e, as­sieme, fecero un giro tutto attorno al seggio. Tōzan si inchinò di nuovo e, dopo aver atteso un momento, chiese: “Avete compreso?” Il mi­nistro rispose: “No.” Tōzan disse: “Vi ho let­to il Tripitaka. Perché non com­prendete?”

Il significato di: “Vi ho letto il Tripitaka” dovrebbe essere chiaro. Non dovremmo conside­rare che camminare at­torno al seggio sia leggere il Tripitaka, né che leggere il Tripitaka equivalga al camminare attorno al seggio. Dobbiamo ascoltare con molta atten­zione le parole del Patriarca.

Una volta, quando il mio defunto Maestro, l’anti­co Buddha, viveva sul monte Tendō, un pelle­grino coreano venne per fare una do­nazione e chiese che tutti i monaci recitas­sero alcuni sūtra. Il mio Ma­estro gli raccontò la storia di Tōzan. Finita la storia il Maestro tracciò nell’aria un cerchio col suo scacciamosche e disse: “Oggi ho letto il Tripitaka per voi.” Gettò quindi per terra lo scacciamo­sche e lasciò la sala.

Dovremmo esaminare attentamente le azioni del mio defunto Maestro. Sono senza pari. Nel leg­gere il Tripitaka utilizzò un oc­chio splendente, o solo mezzo? Dobbiamo chiarire il modo in cui Tōzan e il mio Maestro usarono l’intuizione illumi­nata e la lingua del Buddha.

Il Patriarca Yakusan Kodō,[11] solitamente non permet­teva la let­tura dei sūtra. Un giorno, tutta­via, un monaco lo sor­prese mentre guardava un libro aperto e gli disse: “O monaco! Di solito non per­metti la lettura dei sūtra, perché tu stesso lo stai facendo?” “Ho solo bisogno di qualcosa su cui po­sare gli occhi” disse Kodō. Il monaco allora chiese: “Posso utilizzare lo stesso pretesto?” Kodō rispose: “Se guardi i sūtra, ne brucerai da parte a parte la coper­tura in cuoio.”

Ho bisogno di qualcosa su cui posare gli occhi” si­gnifica per Yakusan il diventare l’oggetto stesso. Vale a dire ab­bandonare l’intuizione illu­minata, abbandonare i sūtra. L’occhio è ostruito e di­venta l’occhio ostruito. C’è un’ostruzione at­tiva davanti all’occhio; alla pelle che copre l’occhio aggiungiamo un’altra pelle. Attraverso l’ostruzione possiamo illuminare l’occhio e vice­versa. Dunque, se non è il sūtra dell’illuminata intuizione, non possiamo acquisire il me­rito ine­rente all’occhio ostruito. “Bruciare da parte a par­te la coper­tura in cuoio” significa che l’intera vacca è pelle. La sua pelle, carne, ossa, midollo, testa, corna e narici costituiscono la sua funzione vi­vente. È imparando qualcosa sul maestro che la vacca diviene intui­zione il­lu­minata. Questo è il significato di posare l’occhio su qualche og­getto. Qui l’intuizione illuminata diventa la vac­ca.

Il Maestro Zen Yafu Dōsen,[12] disse: “Venerare tutti gli innu­me­revoli Buddha ci procura illimitata felicità. Ma questo è superiore alla lettura degli an­tichi insegnamenti? I sūtra sono ca­ratteri neri su carta bianca. Aprite gli occhi e guardateli!”

Dovremmo sapere che venerare gli antichi Bud­dha e leg­gere gli antichi insegnamenti comporta la stessa virtù e felicità. Non vi sono né felicità né virtù, al di là di questo. L’an­tico insegna­mento è caratteri neri su carta bianca, ma chi vera­mente conosce l’antico inse­gnamento? Dovremmo studiare a fondo questo principio.

Una volta, uno dei monaci del Grande Maestro Kōkaku,[13] del monte Ungo, stava leggendo un sūtra nella sua stan­za. Il Maestro gli chiese attraverso la finestra: “Che sūtra stai leggendo?” Il monaco ri­spose: “Il Vimalakīrti Nīrdeśa Sūtra.” Il Maestro disse: “Non ho chiesto quale sūtra tieni tra le mani. Che sūtra stai leggendo?” Improvvisamente il monaco fu illumi­nato.

Il “Che sūtra stai leggendo?” di Kōkaku tra­scende il tempo ed è estremamente profondo; non può essere tradotto a parole. È come incontrare una serpe velenosa sulla strada; allora emerge la que­stione centrale del sūtra. Ogni qualvolta s’incon­tra un maestro, egli sarà capace di spiegare il Vimalakīrti Sūtra, senza errore.

In generale, la lettura dei sūtra dovrebbe basarsi sul metodo utilizzato da tutti i Buddha e i Patriarchi. Essi utilizzano la loro in­tui­zione illumi­nata. In quel momento tutti i Buddha e i Patriarchi di­ven­tano Buddha e proclamano il Dharma e il Bud­dha. Se non leggete i sūtra in questo modo non vedrete mai la testa o il viso dei Buddha e dei Patriarchi.

Nelle odierne comunità di Buddha e Patriar­chi, i sū­tra sono letti in diverse occasioni. Ad esempio, i sūtra letti a beneficio di tutti gli esseri su richiesta di un laico devoto, la re­go­lare recitazione quo­ti­diana, il salmodiare individuale dei mo­naci zelanti; ecc. Ancora, vi è un modo par­ticolare di salmo­diare in occasione dei funerali di un mo­naco. Quando un pio laico viene al tempio chiede­ndo ai mo­naci di salmodiare i sūtra, bisognerebbe attuare questa procedura: terminato il pasto mat­tutino, il monaco anziano innalza un’insegna da­vanti al monastero e agli alloggi dei monaci, per an­nun­ciare il canto. Un tappeto usato per le prostra­zioni viene po­sto innanzi all’immagine di Mañjuśrī.

Giunto il momento, il gong davanti al mona­stero viene suo­nato una, o tre volte, secondo le istruzioni del monaco anziano. Dopo il suono del gong, il monaco anziano conduce tutti gli altri nella sala dove pren­dono posto, rivolti al centro. Tutti dovrebbero indossare il kesa. Per ultimo entra nella sala l’abate che, dopo essersi inchinato alla statua di Mañjuśrī, siede al proprio posto. Allora un monaco porta i sū­tra. Questi dovrebbero essere preparati in an­ticipo e sistemati corret­tamente nell’apposito contenitore.

I sūtra dovrebbero essere portati in una speciale scatola o vassoio. Tutti i monaci, con re­verenza, reggono i sūtra e cominciano a salmodiare. In quel momento l’addetto agli ospiti conduce il laico nella sala. Questi dovrebbe prendere l’incensiere che un mo­naco attendente, in precedenza, aveva situato all’ingresso del tempio. Il segnale per acce­dere al tempio do­vrebbe essere dato dall’addetto agli ospiti. Essi entrano da sud, l’addetto davanti e il laico die­tro. Il devoto, offrendo incenso alla figura di Mañjuśrī, si prostra tre volte, sempre reggendo l’incensiere. Durante le prostrazioni del devoto, l’addetto agli ospiti rimane in piedi, nell’angolo su­periore del tappeto per le pro­strazioni, rivolto a sud e con le mani incrociate sul petto.

Terminate le prostrazioni, il devoto si rivolge a de­stra, verso l’abate, e s’inchina. L’abate resta seduto, prende i sūtra tra le mani e fa gasshō.[14] Quindi il devoto si volta verso nord e si inchina. Poi gira attorno alla sala iniziando dal seggio dell’abate. L’addetto agli ospiti lo guida nel suo giro. Il devoto si ritrova ancora di fronte all’im-magine di Mañjuśrī e, sempre con l’incensiere in mano, effet­tua un inchino. Nel frat­tempo l’addetto agli ospiti rimane all’ingresso, rivolto a nord e con le mani incrociate sul petto. Dopo es­sersi inchinato a Mañjuśrī, il laico segue l’addetto agli ospiti fuori del monastero e vi gira tutto attorno, una volta. Quindi rientra, esegue tre prostrazioni a Mañjuśrī, va al posto asse­gnatogli e attesta la let­tura dei sūtra. Il suo seggio dovrebbe essere o vicino al pilastro a sinistra di Mañjuśrī, o vicino al pila­stro meridionale, rivolto a nord. Quando, infine, il devoto si è seduto, l’addetto agli ospiti s’inchina e raggiunge il suo posto.

In alcune occasioni un monaco intonerà un canto, mentre il laico cammina attorno al monastero. Il seggio di questo monaco do­vrebbe trovarsi alla de­stra o alla sinistra di Mañjuśrī, a se­conda delle cir­costanze. Dovrebbero essere offerte solo le qua­lità più nobili di in­censo, quali jinko, senko, ecc. L’incenso dovrebbe essere prepa­rato perso­nalmente dal devoto. Mentre questi fa il giro del mona­stero, tutti i mo­naci dovrebbero rimanere nella posizione di gasshō.

In seguito, dovrebbe avvenire la dona­zione. La quantità e il tipo di donazione dipendono dal devoto. Alle volte vengono offerti cotone, ven­tagli, ecc. Il laico può fare l’offerta di persona, oppure tramite il segretario generale, o un monaco attendente. L’offerta do­vrebbe essere posta davanti ai monaci, e non data direttamente loro. Tutti i monaci dovrebbero fare gasshō all’atto dell’offerta. A volte la donazione è por­tata prima del pasto mattutino. In questo caso, si suona la tavola degli annunci e il monaco capo introduce il dono. Il merito dell’offerta del de­voto deve essere annotato e posto sul pila­stro a sinistra di Mañjuśrī.

Quando si salmodiano i sūtra nel monastero, ciò dovrebbe avvenire a voce bassa, non alta. In alcune occasioni i sūtra non sono letti ma semplicemente srotolati, e i mo­naci ne guardano solo i caratteri. In questo caso, utilizziamo generalmente sūtra quali il Sūtra del Diamante, alcuni capitoli del Sūtra del Loto, o il Sūtra della Luce Dorata, ecc. Nel monastero si dovrebbero custodire un gran nu­mero di questi sūtra. Ogni monaco dovrebbe averne una pro­pria copia. Una volta terminato di salmodiare, i  sūtra sono riposti nello speciale vassoio o nella sca­tola portata da uno dei monaci. Al­lora i monaci do­vrebbero fare gasshō e intonare, a bassa vo­ce, le strofe di chiusura.

Per il compleanno dell’Imperatore, la lettura dei sū­tra avviene in questo modo. Nel giorno stabilito[15] si inizierà con un di­scorso sul Dharma. Si costruiranno, nella Sala del Buddha, due piatta­forme di fronte all’immagine di Śākyamuni. Queste devono es­sere rivolte ad est, e correre da nord a sud. Tra le due piatta­forme deve essere collocato un leggio per i sūtra. Sul leg­gio verrà posto un sūtra come il Sūtra del Diamante, il Ninnō Sūtra, il Sūtra del Loto, o il Suvarnaprabhāvā-sottamaraja-Sūtra, ecc.

Ogni giorno deve essere servita a tutti i monaci qualche pic­cola piacevolezza, come taglierini, minestra o focac­ce dolci. Que­ste ultime devono essere poste in una ciotola con i bastoncini e non con un cucchiaio. Mangiate lo spuntino là dove vengono salmodiati i sūtra e non portatelo in nes­sun altro luogo. Il cibo deve essere posto vicino ai sūtra e non è necessario preparare un tavolo apposito. Finito lo spuntino, i monaci devono recarsi ai gabi­netti per fare dei gargarismi; tornano quindi ai rispettivi posti per iniziare la lettura dei sūtra. Essi devono leggere ininterrottamente, dal pasto mattu­tino fino a mezzogiorno. Tre colpi di tamburo segnalano il momento del pasto di mezzogiorno e la fine della lettura per quel giorno.

Un’insegna gialla che annuncia la celebrazione del comple­anno dell’Imperatore, deve essere posta, fin dal primo giorno, sul lato orientale del cornicione che fronteggia la Sala del Buddha, o sul pi­la­stro orientale dentro la Sala. Il nome dell’abate deve essere scritto su un pezzo di carta rossa o bianca con l’anno, il mese e il giorno della celebrazione. La lettura dei sū­tra deve continuare in tal modo fino al giorno del com­pleanno dell’Imperatore. Per sottolineare la celebra­zione, l’abate tiene un discorso sul Dharma. Questa è una usanza an­tica e con­solidata. Talvolta, un monaco particolarmente diligente vorrà leggere i sūtra di sua iniziativa. Ogni tempio do­vrebbe avere una sala appo­sita, per la lettura dei sūtra. Coloro che in­tendono leggere i sūtra, do­vreb­bero recarsi lì. Dovete seguire, per questo tipo di lettura, le regole esposte nello Shingi.[16]

Una volta, il Grande Maestro Yakusan Kodō chiese al no­vi­zio Kō: “Cosa è più vantaggioso: leggere i sūtra o studiare sotto un maestro?” Kō disse: “Non serve a niente né leggere i sūtra né stu­diare sotto un maestro.” Yakusan disse: “Sei acuto. Ma se nessuna delle due cose serve, come si può conseguire il Risveglio?” Kō disse: “Non intendevo dire che nes­suno può conseguirlo, bensì che né i sūtra né l’insegnamento di un maestro, possono fornirne l’essenza.”

Alcuni accolgono l’essenza dell’insegnamento dei Buddha e dei Patriarchi, altri no. Ciò nonostante, leggere i sū­tra e studiare sotto un maestro, non sono altro che la vita quoti­diana dei Buddha e dei Pa­triarchi.

 

 

Trasmesso ai monaci del Koshōhōrinji nell’Uji, Yamashiro, il 15 settembre 1241.

Trascritto da Ejō, l’8 luglio 1245, nell’alloggio del discepolo principale del Daibutsuji, Yos­hida, nell’Echizen.



[1] Il Maestro Yakusan Igen (745-828), uno dei successori del Maestro Sekitō Kisen. Kōdō Zenji è il suo titolo postumo. [Yao-shan Wei-yen]

[2] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari che, assieme a Sūtra (i discorsi) e Vinaya (i precetti), forma il Tripitaka, i tre canestri dell’Insegnamento.

[3] Il Maestro Daikan Enō (638-713), successore del Maestro Daiman Kōnin. Spesso è chiamato semplicemente Sesto Patriarca o Sōkei, dal monte su cui dimorava. [Ta-chien Hui-neng]

[4] Il carro del bue bianco rappresenta la Via del Buddha.

[5] Cioè, l’identità degli opposti.

[6] Il Maestro Jōshū Jūshin (778-897), uno dei successori del Maestro Nansen Fugan. [Chao-chou Ts’ung-shen]

[7] I tre canestri dell’Insegnamento. Sono suddivisi in Sūtra (i discorsi), Vinaya (i precetti), e Abhidharma (i commentari).

[8] Cioè i tre veicoli (dal sanscrito trikāya) dell’anziana signora.

[9] Il Maestro Daizui Hōshin (834-919), che è nella linea di trasmissione del Maestro Hyakujō Ekai. [Ta-sui Fa-chen]

[10] Il Maestro Tōzan Ryōkai (807-869), nella linea di trasmissione del Maestro Yakusan Igen. [Tung-shan Liang-chieh]

[11] Il Maestro Yakusan Igen (745-828), uno dei successori del Maestro Sekitō Kisen. Kōdō Zenji è il suo titolo postumo. [Yao-shan Wei-yen]

[12] Il Maestro Yafu Dōsen (?). Scrisse dei commentari sul Sūtra del Diamante. Iinsegnò sul monte Yafu-zan, nell’era Ryūko (1163-1164), della dinastia Sung del Sud.

[13] Il Maestro Ungo Dōyō (835-902), uno dei successori del Maestro Tōzan Ryōkai. Kōkaku Zenji è il suo titolo postumo. [Yün-chü Tao-ying]

[14] Lett. “Il palmo delle mani unito”. È il saluto tradizionale, all’interno di un monastero o di un tempio.

[15] Bisogna tenere presente che la lettura dovrà avere inizio un mese prima del giorno del compleanno dell’Imperatore.

[16] Si tratta del Ch’anyüan Ch’ing kuei (Criteri per monasteri Zen), un testo scritto nel 1103 dal Maestro Chōro Sōsaku (?) [Ch’ang-lu Tsung-tse]