Introduzione   |   Indice sinottico   |   Capitoli   |   Ricerca   |   Contatti

(40)

HAKUJUSHI

La Quercia

 

 

Il capitolo è interamente dedicato al Maestro Jōshū Jushin. Il Mae­stro Dōgen narra la storia di questo Maestro, che condusse una vita molto povera e austera, citando alcuni passi della sua biografia. La seconda parte del capitolo, in una suddivisione ideale, è incen­trata sul famoso kōan: “Perché Bodhidharma è venuto da Occidente?” con un lungo commento alla risposta data dal Maestro Jō­shū.

 

Il Grande Maestro Jōshū Shinsai[1] fu il tren­tasettesimo Patriarca, a partire da Śākyamuni, il Tathāgata.[2] Maturò la de­cisione di cercare la Via a sessantun anni, lasciò la casa e co­minciò a stu­dia­re la Via. In quel momento disse: “Se incontrerò un uomo di cento anni che mi sia inferiore, lo istrui­rò. Se incontrerò un bimbo di sette anni che mi sia superiore, da lui apprenderò la Via.” Fatto questo voto partì verso il sud, in pellegrinaggio.

Un giorno giunse da Nansen[3] e si recò a por­gergli i suoi omaggi. Entrò nella stanza, per salu­tarlo, e vide che giaceva cori­cato. Nansen gli chie­se: “Da dove vieni?” “Dallo Zuizoin”[4] rispose Jōshū. “Hai visto la Zuizo?[5]” chiese Nansen. “No, quella non l’ho vi­sta, ma vedo un Buddha cori­cato.” Nansen allora si mise seduto e chiese: “Sei un novizio senza maestro?” “Ce l’ho un maestro” gli disse Jōshū. “Chi è?” chiese Nansen. “La prima­vera è all’inizio ed è ancora freddo ma voi, venerabile sacerdote, ave­te un bell’aspetto.” Nansen chiamò il capo dei monaci e disse: “Abbi partico­lare cura di questo novizio.”

Fu così che Jōshū cominciò a studiare sotto Nansen. Da al­lora non lasciò mai quel luogo per ol­tre trent’anni, e si addestrò dili­gentemente sulla Via. Non sprecò mai il suo tempo né mai si dedicò a cose inutili. Dopo che ebbe ricevuto la trasmissione del­la Via, di­venne abate di Kannonin nel Jōshū e lì visse per altri trent’anni. Come abate fu molto diverso dai tipici preti della sua epoca.

Un giorno il Maestro Jōshū disse: “Solamente dalle cucine circo­stanti si innalza del fumo, e non ho più mangiato un manju o un dango[6] dall’anno scorso. I monaci pensano poco al proprio addestramento ma, in compenso, si lagnano molto. In città non c’è più rimasta brava gente. Quando fanno visita al tempio, la prima cosa che chiedono è il tè, e se non ce n’è si stizziscono e se ne vanno.” È davvero un peccato che non esca del fumo dalla cu­cina di Jōshū e che ci sia così poco cibo. È da un anno che mancano le provviste. Dal villag­gio la gente viene solo per il tè; se non hanno desiderio di un buon tè non vengono, e mai nes­suno di essi ne porta in offerta. I monaci vogliono ve­dere un saggio, ma nessuno vuole di­ventarlo.

In un’altra occasione, il Maestro Jōshū disse: “Al di fuori di tutti coloro che hanno rinunciato al mon­do, c’è qualche altro che viva come vivo io? Dormo per terra, su di una stuoia a brandelli, senza una coperta e con un pezzo di legno come cuscino. Nes­sun incenso brucia davanti all’immagine del Buddha; c’è solo la puzza dello sterco da ardere.” Possiamo vedere da questa descrizione quan­to fosse povera la vita di Jōshū. Tutti noi do­vrem­mo seguire il suo esem­pio. Eppure, poiché pochi sono ca­paci di condurre una vita così difficile, meno di venti monaci studiavano sotto di lui. Il mo­na­stero era piccolo e privo di appropriate como­dità come sedie o lavatoi. Non c’era nessuna luce per la not­te, né carbone per l’inverno. Era una vita molto austera, specie per una persona in età avan­zata. Ciò nono­stante, tutti gli antichi Bud­dha vissero così, come Jōshū.

Una volta, uno degli attendenti del tempio avrebbe voluto sosti­tuire la gamba di una piattaforma, che tempo prima si era spez­zata e che era stata rappezzata alla meglio con un pezzo di legno, ma Jōshū non lo per­mise. Questo è un aneddoto assai inconsueto. Spesso non c’era nemmeno un chicco di riso per la fa­rinata del mattino; c’era solo la luce che si riversava at­traverso la finestra e della polvere che volteggiava attraverso le fes­sure. Talvolta Jōshū stesso raccoglieva noci e bacche da utiliz­zare per il pasto dei monaci. Tutti i suoi discen­denti ne elogiano la vita austera e, anche se non possono seguire le sue orme, desiderano ar­dente­mente questo tipo di vita.

Un’altra volta, il Maestro Jōshū disse ai monaci: “Ho vis­suto tren­t’anni nel sud non facendo altro che zazen. Tutti voi dovre­ste concentrarvi sullo zazen al fine di chiarire la grande questione di vita e morte. Se dopo tre, cinque, venti o trent’anni di prassi non riu­scite a conseguire la Via, taglia­temi la testa e usatela come bacinella da cesso.” Jōshū usava espressioni di que­sto genere, forti. In verità, la prassi dello zazen è la strada diretta alla Via del Buddha; cercate nello zazen la verità. Più tardi, molti so­stennero che Jōshū era un antico Buddha.

Una volta, un monaco chiese al Grande Maestro Jōshū: “Perché il primo Patriarca venne da occidente?” Jōshū rispose: “La quercia, nel giar­dino di fronte.” Il monaco disse: “Prete, non do­vresti dare una risposta così oggettiva.” A questo, Jōshū re­plicò: “Non l’ho fatto.” Il monaco chiese di nuovo: “Perché il primo Patriarca venne da occidente?” Jōshū rispose: “La quercia, nel giardino di fronte.” Benché questo kōan[7] sia nato con Jōshū, fu creato dal corpo intero di tutti i Buddha. Chi è il maestro di questo kōan?[8] Dovremmo certo sapere che il principio de “La quercia, nel giar­dino di fronte” e de “Perché il primo Patriarca venne dall’oc­ci­dente”, non appartiene al mondo oggettivo. Inoltre, la quercia non è il sé oggettivo.

È perché abbiamo “Prete, non dovresti dare una ri­sposta così oggettiva” che vi è : “Non l’ho fatto”; come può il prete provare attac­camento per il prete? Se non prova attaccamento diventa io. E come può l’io provare attac­camento per l’io? Se prova attaccamento diventa un essere umano. Quale grado di oggetti­vità può essere impe­dito da “Venne dall’occidente”, dato che “Venne dall’occidente” si verifica nel mondo oggettivo?Tuttavia non aspettatevi coscientemente una condizione og­gettiva di “Venne dall’occidente” perché questo non è necessaria­mente l’Occhio e il Tesoro della Vera Legge, né la Serena Mente è la mente, né il Buddha né le cose.

Perché il primo Patriarca venne da occidente?” non è una domanda e nemmeno indica che il monaco e Jōshū condividessero lo stesso punto di vista. Quando si pone questa domanda nes­suna per­sona è percepita, e nemmeno chi chiede può ottenere alcunché. Più approfondiamo la questione, più è impenetrabile. Dun­que la nostra risposta è incom­pleta e l’errore si somma all’errore; il nostro parlare è come una vuota eco, non è così? Perché “La quercia nel giardino di fronte” non contiene in sé ogget­tività né sogget­tività; queste parole affondano le loro ra­dici nella totale libertà.

Non stiamo parlando in senso oggettivo, perciò questa quer­cia non è del genere usuale. Anche considerandola da un punto di vista oggettivo, Jōshū non diede una risposta oggettiva. Questa quer­cia non è simile a quelle vicino alla tomba dell’imperatore. Non es­sendo si­mile a quelle,[9] la nostra quercia può trasformarsi in polvere. Anche quando diventa polvere, non può ostacolare i nostri pensieri né la nostra prassi, e di conseguenza Jōshū disse: “Non ho dato una risposta oggettiva.” Come si può mostrare questo ad altri, dato che noi stessi siamo come la quercia?[10]

Un giorno, un monaco chiese a Jōshū: “La quercia ha la natura-di-Buddha?” Jōshū rispose: “Ce l’ha.” Allora il monaco domandò: “Quand’è che la quercia diventa un Buddha?” Jōshū disse: “Attende che il cielo cada sulla terra.” E il monaco: “Quand’è che cade sulla terra?” “Attende che la quercia diventi un Bud­dha.”

Dovremmo considerare con attenzione sia la domanda del monaco, sia la risposta del Grande Maestro. Le frasi di Jōshū “Quando il cielo cade sulla terra” e “Quando la quercia diventa un Buddha” non esprimono un’idea di reciproca attesa. Il monaco inter­rogava circa la quercia, la natura-di-Buddha,[11] il divenire un Bud­dha, il tempo, il cie­lo e il cadere sulla terra. La risposta di Jōshū: “Ce l’ha”, significa che la quercia possiede la natura-di-Buddha. Per padroneggiare questo a fondo, dobbiamo impadronirci della linfa vi­tale dei Buddha e dei Patriarchi. Di solito non si sostiene che la quer­cia possiede la natura-di-Buddha. Tuttavia, dal momento che ciò è stato detto, dovremmo chiarirlo.

È elevata o umile la condizione della quercia che possiede la natura-di-Buddha? Dovremmo cer­care di scoprire se è o non è lon­geva, quanto è alta, e a quale genere e famiglia appartiene. Cen­tomila alberi sono uguali o diversi? C’è una quercia che diventa Buddha, una quercia che si addestra, o una quercia dalla mente ri­svegliata? Esiste un par­ticolare rapporto tra cielo e querce? Per diven­tare un Buddha la quercia attende che il cielo cada; questo significa forse che la quercia diventa il cielo? E ancora, la quercia si trova sul primo o sull’ultimo gra­dino del cielo? Questo dovrebbe essere inve­stigato dettagliatamente. Ora chiediamo a Jōshū: “Parli in questo mo­do perché sei una cosa sola con la quercia, non è così?”

In generale, “La quercia possiede la natura-di-Buddha” non è il modo di vedere né dei seguaci dell’Hīnayāna o della gente co­mune, né l’opi­nione degli studiosi dei sūtra e dell’abhi­dharma.[12] Come potrebbero, d’altro canto, esprimersi così si­mi­li persone aride e prive di vita? Solo uomini come Jōshū possono investigare e chiarire ciò. La sua frase: “La quercia possiede la natura-di-Buddha” ha a che fare con la questione se la quercia ostacola la quercia, o se la natura-di-Buddha osta­cola la natura-di-Buddha. Questa espres­sione non è cono­sciuta a fondo solo da un Bud­dha o due, e non è neces­sario avere l’aspetto di un Buddha per cono­scerla. Qualcuno dei Buddha può averla formulata, qualcuno no. “Aspettano che il cie­lo cada sulla ter­ra” non implica che un simile evento non accada. Ogni volta che la quercia diventa un Bud­dha, il cielo cade sulla ter­ra. Il rombo del cielo che cade sopra la terra, su­pera il fragore di cento­mila tuoni.

Quando la quercia diventa un Buddha, le ore del gior­no vengono capovolte. Il cielo che cade sulla terra non è quello perce­pito dalla gente co­mune né dai saggi; c’è un altro ti­po di cielo che solo Jōshū vede. ‘Terra’ non è la terra della gente comune o dei saggi, è un altro tipo di terra. Ombra e luce non possono soggiornarvi, solo Jōshū. Anche il sole, la luna, le montagne e i fiumi, attendono che il cielo cada sulla terra.

Chiunque sia in grado di parlare della natura-di-Buddha, di certo diventa un Buddha. Essa è l’ornamento del di­venire un Buddha. Inoltre, la natura-di-Buddha coesiste simul­taneamente col dive­nire un Buddha. Ecco perché la quercia e la natura-di-Buddha non sono, dunque, né suoni diversi né una stessa tonalità. Non im­porta in che modo cerchiamo di espri­merli; non è possibile farlo. Tutti voi do­vete chiarire questa faccenda.

 

 

Trasmesso ai mo­naci nel Kannondōri-Koshōhōrinji, il 21 maggio del 1242.

Trascritto da Ejō, il 3 luglio 1243, nell’alloggio del Maestro.



[1] Il Maestro Jōshū Jūshin (778-897), uno dei successori del Maestro Nansen Fugan. [Chao-chou Ts’ung-shen]

[2] Lett. “Così arrivato”.

[3] Il Maestro Nansen Fugan (748-834), uno dei successori del Maestro Baso Dōitsu. [Nan-ch’üan P’u-yüan]

[4] Il tempio del Maestro Nansen.

[5] Un’immagine del Buddha, conservata nel tempio.

[6] Si tratta di due tipi di focacce dolci.

[7] Kōan, è l’abbreviazione di Kofu Antoku, che era in origine il nome di una tavola sulla quale venivano esposte le nuove leggi ufficiali, in Cina. All’interno della Via il suo significato è duplice. Uno, rappresenta la concreta manifestazione del Dharma, l’Universo stesso, la realtà (Si veda il cap. 1, Genjōkōan). L’altro rappresenta una storia che manifesta i principi universali del Dharma del Buddha.

[8] Allude alle parole del Maestro Zen Zuigan che era solito dire a se stesso: “Maestro!” e rispondersi “Sì.”

[9] Che non possono essere abbattute.

[10] Cioè, privi di discriminazione tra soggettivo e oggettivo.

[11] La natura-di-Buddha è la ‘Natura propria’, o ‘Vera natura’, o ‘Volto originario’ (comunque si voglia chiamare) di ogni essere, anche se questi  lo ignora.

[12] L’Abhidharma, è il canestro dei commentari che assieme ai Sūtra (i discorsi), e al Vinaya (i precetti), forma il Tripitaka, i tre canestri dell’Insegnamento.