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SANJI GŌ

I Tre Momenti della Retribuzione Karmica

 

 

Questo capitolo è un ideale proseguimento di quanto espresso nel ca­pitolo precedente, Jinshin Inga. Il Maestro Dōgen insiste nel sottoli­neare che ogni cosa nell’Universo è soggetta alla legge di causa ed effetto, senza alcuna eccezione, anche se i suoi effetti possono non es­sere immediatamente riscontrabili. Il Maestro Dōgen illustra quindi alcuni esempi in cui la retribuzione karmica avviene sia nel corso della stessa esistenza, sia nel corso di un arco di tempo più lungo.

 

Un uomo probo chiamato Gayata, mentre il Venerabile Kumāralabdha, il diciannovesimo Patriarca, si trovava a viag­giare per l’India centrale, gli chiese: “I miei genitori hanno preso rifu­gio nei Tre Tesori eppure sono sempre malati e poveri, pur la­vorando duramente; il no­stro vicino è un śūdra,[1] e tuttaavia scoppia di salute e si arric­chisce. Per­ché?” Il Venerabile Kumāralabdha rispose: “Come molti altri, tu non sai che la retribuzione karmica si manifesta in tre diversi mo­menti. Quando vedi che il compassionevole muore giovane mentre invece l’aggressivo vive a lungo, e che il malvagio è fe­lice mentre invece il virtuoso è infelice, tendi a dubitare della causalità e non riesci a vedere il suo rapporto con felicità e dolore. Questo è un errore. La causalità è retta da un principio simile a quello per il quale l’ombra accompagna l’oggetto e non perde di forza neppure col passare di centomila kalpa.”[2] Udendo queste parole Gayata fu liberato da ogni dubbio.

Si dice che lo stesso Tathāgata[3] avesse predetto che il Venera­bile Kumāralabdha sarebbe stato il diciannovesimo Patriarca. Questi non solo trasmise correttamente il Dharma, ma posse­deva anche una profonda comprensione degli insegnamenti dei Bud­dha dei tre mondi. Gayata, che continuò a studiare sotto Kumāralabdha, divenne il ventesimo Patriarca e si dice che anche la sua successione fosse stata prevista dal Tathāgata. Una persona che nutra dei dubbi sul Dharma, dovrebbe su­bito cominciare a studiare gli insegnamenti dei Pa­triarchi ed evitare di frequentare coloro che non sanno nulla sulla causalità, sulla retribu­zione karmica e sull’esistenza dei tre mondi; ciò perché chi ignora queste cose, incapace di distinguere il bene dal male, quasi sempre coltiva opinioni errate.

La retribuzione karmica si manifesta in tre diversi mo­menti: nel corso della vita presente, durante la vita succes­siva, oppure dopo due esistenze successive. Dobbiamo far chiarezza su questo tema al più presto,altrimenti corriamo il ri­schio di coltivare opinioni errate, di soffrire per lungo tempo nei tre mondi sventurati[4] e, cessando di agire il bene, di incorrere in un’incalcolabile perdita di merito; allora non sa­remo in grado di  conseguire il risveglio per moltissimo tempo. Come ho detto prima, la retribuzione karmica si mani­festa in tre diversi momenti. Il primo caso, cioè la retribu­zione durante la vita presente, significa ricevere la retribuzione delle nostre buone e cattive azioni nell’ambito della stessa vita in cui queste sono state commesse. Il racconto che segue è tratto dal Daibibasha-ron.[5]

 “C’era, molto tempo fa, un taglialegna. Un giorno, trovandosi sulle montagne a raccogliere legna, smarrì il sentiero a causa della neve. Venne la notte e la neve continuò a cadere sempre più fitta mentre il freddo aumentava. Sentendo che la morte si avvicinava, il tagliale­gna iniziò a girovagare dispe­ra­tamente cercando di mantenersi caldo. Così facendo però, si addentrò ulteriormente tra i monti e si ritrovò più sperduto che mai. Improvvisamente finì quasi addosso ad un orso che stava accovacciato nella neve; la sua pelliccia era color blu scuro e gli occhi fiammeggiavano come due torce splendenti. Questa appa­ri­zione, unita al freddo intenso, provocò all’uomo quasi un col­lasso.

L’orso, che di fatto era l’incarnazione di un Bodhisat­tva, lo rassicurò dicendo: ‘Non temere perché io, a differenza di certi genitori che odiano i loro stessi figli, non ti farò del male’. Sollevò delicata­mente il taglialegna e lo portò nella sua tana; qui lo protesse dalle in­temperie col suo stesso corpo e lo riscal­dò con la propria pelliccia. Una volta che l’uomo si fu un po’ ripreso, l’orso gli portò diverse qualità di radici e di bacche, e trascorse i sei giorni successivi accudendolo in tutte le sue necessità. Il set­timo giorno il cielo si schiarì e nella neve che si scioglieva co­minciò ad intravedersi un sentiero. Nel frattempo il tagliale­gna si era ripreso completamente e desiderava tornare a casa. L’orso, comprendendo il suo desiderio, lo rifornì di bacche e di radici per il viaggio e lo condusse al limitare della foresta.

Qui giunti, il ta­glialegna cadde in ginocchio e chiese: ‘In che modo potrò mai ri­cambiare la tua gentilezza?’ L’orso rispose: ‘Non ho bisogno di nulla. Ti chiedo solo di rispettare la mia vita, così come  io ho fatto con la tua’. L’uomo accettò senza esitare, salu­tò l’orso e si mi­se in cammino.

Percorso un breve tratto, incontrò per caso due caccia­tori che gli chiesero se avesse visto nella foresta qualche ani­male selvatico. Egli rispose di aver visto solo un orso. Poiché i cacciatori insi­stevano perché li conducesse dall’ani­male, il taglia­legna disse loro: ‘Ve lo mostrerò a condizione di ricevere i due terzi della sua carne’. I cacciatori acconsentirono, ed i tre si avvia­rono. Ben presto trovarono l’orso, lo uccisero e divisero la carne come avevano convenuto. Ma quando il ta­glialegna si chinò per prendere la sua parte, a causa del cattivo karma, entrambe le braccia gli si staccarono dal tronco come una collana che si spezzi improvvisamente, o come un fiore di loto tagliato di netto alla radice.

I cacciatori rimasero attoniti e chiesero spiegazioni. Profonda­mente confuso e pieno di rimorso, il taglialegna rac­con­tò tutta la storia. I cacciatori ne furono indignati e dissero: ‘Visto che devi tanto a quest’orso, come hai potuto anche solo concepire un’azione così spregevole? È un miracolo che il tuo intero corpo non marcisca qui, di colpo’. Decisero di non cibarsi di quella carne e la offrirono ad un tempio lì vicino. Un monaco che in quel momento sedeva in  zazen seppe tuttavia, per intui­zione, quale fosse l’origine del dono; chiamò a raccolta gli altri monaci e disse loro che quella era in realtà la carne di un emi­nente Bodhisattva che aveva elargito grandi benefici nel mondo degli esseri senzienti. In segno di rispetto i monaci cremarono la carne su una pira di legno odoroso e costruirono uno stūpa per conservarvi le ossa.”

Questo racconto illustra il caso in cui si commette il male e si riceve la conseguente retribuzione karmica all’interno della medesima esistenza. L’insegnamento è: ripaga coloro verso cui sei de­bitore e non cercare ricompensa per la genti­lezza agita verso altri. Le azioni malvagie contro i propri bene­fattori subi­ranno, senza ombra di dubbio, la giusta punizione. In nessun ca­so dovremmo comportarci come il taglialegna che, in un primo momento desiderò sinceramente di ripagare la gentilezza dell’orso, per poi commettere una simile atro­cità. Laici o monaci che siamo, non dovremmo dimenticare coloro che sono stati ge­nerosi con noi. Come il racconto mostra chia­ramente, il potere della retribuzione karmica fu tale che le braccia del taglialegna caddero all’istante, più velocemente che se fossero state tagliate con un colpo di spada.

Il prossimo racconto narra di un uomo che fece il be­ne e rice­vette la conseguente retribuzione all’interno della stessa esi­stenza. Anche questo episodio è tratto dal Daibibasha-ron.

Molto tempo fa, nel paese dei Gandhāra, presso la corte del re Kaniska,[6] viveva un eunuco il cui compito era di vigilare sulle dame di palazzo. Un giorno, passeggiando al di fuori delle mura del ca­stel­lo, l’eunuco si imbatté in una mandria di cinquecento capi che si dirigeva verso le porte della città. Chiese allora al pasto­re: ‘Per­ché stai por­tando queste bestie in città?’ Il pastore ri­spose: ‘Per farle castrare’. L’eunuco, che a causa del precedente cattivo karma, aveva l’aspetto ma non le complete capacità di un uomo, provò una profonda compas­sione per questi animali e pensò: ‘Devo salvarli dal loro destino’. Allora raccolse tutti i suoi risparmi, acquistò la mandria e liberò gli animali. Grazie a questo gesto, immediatamente recuperò la sua capacità virile. Esultando per l’accaduto, corse al castello e ne informò il re, che si rallegrò moltissimo; colmò l’eunuco di doni preziosi e gli conferì l’im­portante carica di ministro degli esteri. Questa storia dimostra che, alla fin fine, dobbiamo rendere conto delle nostre azioni, buone o cat­tive che siano.”

Benché le vacche di solito non corrano rischi di que­sto genere, il racconto dimostra chiaramente che perfino gli atti di gentilezza nei loro confronti non restano senza ricompensa. Sa­rebbe dunque difficile immaginare che la compassione agita nei confronti di geni­tori, insegnanti e saggi, nonché gli atti di vene­razione indirizzati ai Buddha e ai Patriarchi, non ricevano una remunerazione ancora supe­riore.

Il secondo caso, cioè quando la retribuzione karmica si manife­sta nell’esistenza che segue quella in cui il karma è stato pro­dotto, riguarda coloro che commettono una delle cinque azioni scelle­rate. Ci si può dannare, nell’esistenza successiva, anche per cat­tive azioni di altro genere; in questi casi è pos­sibile che la retribu­zione si manifesti più tardi. Le cinque azioni scellerate sono: uccidere il proprio padre, uccidere la propria madre, uccidere un arhat,[7] provo­care divisioni all’in­terno del Samgha e ferire il corpo del Buddha. Chiunque commetta anche una sola di queste azioni, nella vita succes­siva, precipita nella dan­nazione. Kejō, un monaco vissuto all’epoca del Bud­dha Kāśyapa, le commise tutte e cinque; altri, come il re Ajase-ō[8] che as­sassinò suo padre Bimbisāra, soltanto una; altri anco­ra, come nel caso di Ajita che uccise entrambi i genitori ed un arhat, ne commisero tre. Ajita, in particolare, perpetrò i tre crimini mentre era ancora un laico ed in seguito divenne mo­naco. Il monaco Devadatta[9] è un altro che com­mise tre azioni scellerate: provocò divisioni nel Samgha, ferì il corpo del Bud­dha e uccise un arhat. Devadatta è anche conosciuto come Devadattao: Passione Celestiale. Ecco il racconto dei suoi tre cri­mini.

Il primo crimine, cioè il provocare divisioni nel Samgha, lo commise quando, con l’intenzione di allontanarli dalla verità, portò cinquecento monaci novizi sul monte Gaya. Quando Śāriputra se ne ac­corse, fece in modo di addormentare Devadatta per consen­tire a Maudgalyāyana di raggiungere i monaci e ristabilire l’unità del Sam­gha. Devadatta tuttavia, risvegliatosi troppo presto, vide Maudgalyāyana condurre via i monaci e giurò vendetta. L’opportunità di mettere in atto la minaccia si presentò qualche tempo dopo; allora sollevò un grande macigno e lo scagliò contro il Buddha. L’in­tervento di una divinità della montagna ri-uscì ad evitare che il colpo raggiungesse di­rettamente il Buddha, il cui piede venne però ferito da una scheggia e prese a sanguinare.

Secondo questo racconto, Devadatta provocò una divi­sione nel Samgha prima di ferire il corpo del Buddha. Altri ri­tengono che la sequenza degli avvenimenti sia stata inversa, mentre altri ancora so­stengono che egli avesse anche picchiato a morte la monaca Renge-shiki,[10] commettendo così una terza azione scelle­rata. Provocare divi­sioni nel Samgha significa creare una frattura tra i monaci e il Dharma, inse­gnando false dottrine.

Insegnamenti eterodossi sono diffusi in tutti i conti­nenti, ad eccezione di quello settentrionale; dai tempi di Śākyamuni fino a quest’epoca di decadenza  del Dharma è sempre stato così, e così sarà in futuro. Le false dottrine che esistevano al tempo di Śākyamuni, dopo la sua morte scomparvero totalmente in tutti i conti­nenti, tranne che in quello meridionale. Dif­fondere insegnamenti non veritieri è un crimi­ne molto grave.

Devadatta cadde nel’inferno Abi,[11] a causa delle sue tre azioni scellerate. Come ho  detto, vi sono persone che commettono le cinque azioni scellerate, altre ne commettono una soltanto, altre an­cora tre, come Devadatta. In ogni caso, tutte precipi­tano nell’inferno Abi e tutte ricevono la giusta re­tribu­zione. Coloro che commettono una sola azione scellerata soffro­no un solo genere di retribuzione per il periodo di un kalpa. In proporzione, coloro che commettono cinque azioni scellerate patiscono cinque specie di retri­buzione, per la durata di cinque kalpa.

L’Āgama Sūtra ed il Nirvāna Sūtra insegnano che i pe­riodi di permanenza negli inferi si possono  misurare in kalpa e che, inoltre, vi sono vari tipi di fiamme più o meno ardenti. La quantità di sof­ferenza che si patisce nell’inferno Abi è proporzionale al numero dei propri crimini. Devadatta, che commise tre azioni scellerate, soffre in proporzione tripla rispetto a chi ne ha commessa una sola. Proprio in punto di morte Devadatta for­mulò l’intenzione di votarsi al servizio del Buddha; così, alme­no in qualche misura, la sua mente malvagia fu purificata.  Purtroppo non fece in tempo a prendere i precetti.

Devadatta, che pure si trovava ben lontano da Śākyamuni, continuò a risvegliare la sua mente anche nell’inferno e poté così ri­cominciare ad agire il bene. Nell’in­ferno Abi si trovavano altri quattro monaci che avevano un temperamento simile a quello di Devadatta. Uno di loro, il mo­naco Kukali, ap­parteneva al clan Śākya. Un giorno egli stava cavalcando in­sieme a Devadatta fuori città; entrambi i ca­valli caddero, i cava­lieri furono disarcionati e persero il loro copricapo protettivo. I testimoni del fatto commentarono: “Il loro studio del Dharma è stato inutile, nessuno dei due ne trarrà qualche merito.” Ku­kali aveva calunniato Śāriputra e Maudgalyāyana,[12] diffondendo voci malevo­le ed infondate sul loro conto. Śākyamuni e Brahmā lo avevano redarguito per questo, ma inutilmente; perciò nell’esistenza successiva si ri­trovò agli inferi. Anco­ra oggi egli non ha merito sufficiente per ricominciare ad agire il bene. Anche un monaco al quarto sta­dio del sa­mādhi precipitò, nell’esistenza successiva, negli inferi. Poiché aveva calunniato il Buddha proprio in punto di morte, l’inferno Abi si spa­lancò da­vanti a lui ed egli cadde direttamente nell’abisso. In tutti que­sti episodi, la retribuzione karmica si manifesta nell’esistenza che se­gue quella in cui il karma è stato gene­rato.

Le azioni scellerate sono anche chiamate “Le cinque azioni non mediate da tempo e spazio” e questo è per cinque ragioni: la prima, coloro che le commettono precipitano direttamente nell’inferno Abi, senza passare attraverso lo stadio intermedio;[13] la seconda, in questo in­ferno si soffre ininterrottamente, senza un attimo di pausa per risto­rarsi, dunque il nome deri­va dall’effetto della retribu­zione e non dalla causa;[14] la terza, la du­ra­ta nel tempo della retri­buzione è indefinita ed il­limitata; la quarta, la vita di chi si trova in questo inferno ha una durata in­finita, non ha interruzioni, e chi rinasce in que­sto luogo deve re­starvi per almeno un kalpa; la quinta, ogni abitante dell’inferno Abi ne occu­pa tutto il volume, che è di ottantaquat­tromila yoja­na[15] quadrati, completamente; eppure, esso è in grado di ospitare innu­mere­voli per­sone senza che queste interferiscano l’una con l’al­tra.

Il terzo tipo di retribuzione karmica è quello che si evidenzia dopo due esistenze successive e che può manifestarsi a tremila, quattro­mila o anche centomila anni di distanza dall’impulso karmico iniziale. I Bodhisattva ricevono la retribuzione del loro adde­stramento nel corso della terza vita. Molte persone igno­rano tale aspetto, ed anche gli studenti della Via talvolta nu­trono dubbi in proposito. Il Venerabile Gayata era uno di que­sti. Se, quando era ancora un laico, egli non avesse incontrato il ve­nerabile Ku­māralabdha, non avrebbe mai risolto il suo dubbio. Gli studenti che decidono di promuovere il bene determinano la scomparsa del male; coloro che decidono di produrre il male de­termi­nano la scomparsa del bene.

Nella città di Śrāvasti vivevano un tempo due uo­mini. Il primo aveva sempre fatto il bene, l’altro sempre il male; il primo non aveva mai fatto alcun male, il secondo mai alcun be­ne. Quando l’uomo che aveva sempre fatto il bene fu in punto di morte, si aprì davanti a lui lo stato intermedio associato agli inferi. Non sapendo che questa fosse la risul­tante del prece­dente cattivo karma ora giunto a matu­razione, pensò: “Per tutta la vita ho fatto il bene, neppure una volta ho commesso alcun­ché di male; sicuramente dovrei finire in un reame celestiale e non agli inferi.” Molti pensieri attraversarono la sua mente e infine concluse: “Deve essere la conseguenza di azioni malvagie com­messe in passato.” Con questo pensiero in mente, riflettendo sulla sua recente vita trascorsa in modo puro, si sentì colmo di gioia profonda. Immediatamente lo stato intermedio associato agli inferi scomparve e si manifestò quello associato ai reami celestiali: egli era infatti rinato in quest’ultimo. L’uomo provò una profonda gioia; la sua fiducia nella retribuzione karmica era stata dimo­strata, ed era rinato in uno dei cieli. Una persona igno­rante, nella stessa situazione, avrebbe proba­bilmente pensato: “Ho sempre fatto il bene eppure sto per finire agli inferi. Co­m’è possi­bile ciò?” Una tale riflessione è chiaramente una ne­gazione della legge di causalità ed è un oltraggio al Buddha; co­stui sa­rebbe precipitato negli inferi senza ombra di dubbio. L’uomo che seppe aver fiducia entrò in uno dei cieli, e questo do­vremmo ricor­dar­celo.

Quando fu in punto di morte, al secondo uomo che aveva commesso sol­tan­to del male, apparve lo stato inter­medio associato ai reami celestiali. Non sapendo che questa era la conse­guenza del karma generato dalle buone azioni passate ora giunto a maturazione, egli pensò: “In tutta la mia vita ho solo commesso il male perciò dovrei certamente rinascere negli inferi e invece mi si presenta uno dei cieli. Ciò dimostra chiara­mente la falsità della legge di causalità e dei Tre Tesori.” A causa di que­sto errato pensiero lo stato intermedio asso­ciato ai regni celestiali svanì la­sciando posto a quello associato agli in­feri, dove egli precipitò.

Quest’uomo, che non aveva mai prodotto alcun bene, ignorava la legge di causalità; è per questo  che, quando al mo­mento della morte lo stato intermedio associato ai cieli si spalancò davanti a lui, egli non seppe metterlo in relazione alle sue buone azioni passate. Ne dedusse che non si risponde delle proprie azioni e che perciò, nono­stante la sua vita cattiva, sa­rebbe entrato in uno dei cieli: una chiara negazione della legge di causalità. Per questo lo stato intermedio che conduce ai regni celestiali scomparve, ed apparve quello associato agli inferi, che si aprirono davanti a lui. Questa fu la conseguenza delle sue false opinioni.

Gli studenti dovrebbero imparare da questo episodio. È asso­lutamente necessario essere in grado di distinguere il vero dal falso. Dubitare del principio di causalità e perciò ne­garlo, denigrando così i Tre Tesori, il risveglio e i tre mondi, vuol dire coltivare una  falsa opi­nione. Questa vita ci mette a dispo­sizione un solo corpo, non due o tre; sarebbe ve­ramente incre­scioso utilizzarlo scorrettamente per gene­rare del cat­tivo karma. Non fa alcuna differenza se il cattivo karma è prodot­to inten­zionalmente o meno; il cattivo karma è cattivo karma e la retribuzione è la medesima. La malvagità premeditata, tuttavia, produce l’ulteriore effetto di trasformare il nostro buon karma in cattivo karma. Le stesse cattive intenzioni sono di per sé azioni inique.

Kogetsu, un monaco consigliere dell’imperatore, chiese una volta a Chōsa:[16] “Un vecchio maestro ha detto che i risvegliati compren­dono che il loro karma passato è essenzial­mente vuoto, men­tre chi non è risvegliato deve pagare il suo debito karmico. Se questo è vero, perché Shishibodai[17] ed Eka[18] hanno dovuto pagare il loro debito karmico?” Chōsa ri­spose: “Venerabile, voi non comprendete il signifi­cato di es­senzialmente vuoto.” Ko­getsu chiese allora spiegazioni e Chōsa disse: “Significa il cattivo karma passato.” Kogetsu con­tinuò ad interrogare sul il significato di cattivo karma passato. “Signi­fica  essenzialmente vuoto” fu la risposta. Ko­getsu restò in silenzio e Chōsa recitò questi versi:

 

"In realtà l’esistenza temporale non esiste,

né esiste la non-esistenza temporale,

perché illuminazione e retribuzione karmica

hanno un’unica vera natura.”

 

Chōsa fu uno degli allievi principali di Nansen Fugan[19] e ri­mase con lui a lungo. Anche se la sua comprensione di molti aspetti del Dharma era senza  dubbio profonda, la spie­gazione data a Kogetsu dimostra che egli non aveva compreso il signifi­cato di cattivo karma. Inoltre, non riuscì a compren­dere il si­gnificato delle parole del Mae­stro Zen Yōka[20] e del Ve­nerabile Kumāralabdha, senza contare quelle del Buddha Śākyamuni. Come si può ri­spettare chi trasmette il Dharma in modo scorretto?

Oltre a questo karma nei tre tempi, vi è il karma indefinito[21] e vi sono gli otto tipi di karma.[22] Basandosi sulla comprensione del fatto che il karma non si può affievo­lire, Kogetsu chiese quale sarebbe stato il suo effetto sulle vite future. Chōsa sbagliò dicendo che “Essenzial­mente vuoto” si­gnifica “Cat­tivo karma.” Questo fu in effetti un grande errore; come può ciò che produciamo, e in questo includo il cattivo karma, essere es­senzialmente vuoto? Generare karma e non ge­nerare karma sono definibili solo l’uno in rapporto all’altro. Soltanto chi non cono­sce il Dharma del Buddha può sostenere che il karma è essenzial­mente vuoto. Se condividete questa opinio­ne e contemporaneamente commettete il male, non riuscirete a conseguire il risve­glio. Se non ci fosse il risveglio, i Buddha non sareb­bero apparsi nel mondo, Bodhidharma non si sarebbe trasferito dall’India in Cina, e il Maestro Nansen non sarebbe esistito. E se quest’ultimo non fosse esistito chi avrebbe portato Chōsa alla Via del Buddha?

L’affermazione di Chōsa, per cui il cattivo karma è essenzial­mente vuoto, è del tutto sbagliata. Questo errore può essere attribuito al fatto che egli si sia rivolto a Kogetsu, un allievo molto dotato e diligente, partendo dal proprio limitato punto di vista. Sbagliò poi ancora recitando dei versi in cui sosteneva che il risveglio e la retribu­zione karmica possiedono la stessa natura.

Mi piacerebbe chiedergli che cosa intendesse per ‘natu­ra’, e a quale delle tre nature si riferisse: buona, cattiva, o né buona né cat­tiva? Nel parlare di illuminazione e retribu­zione karmica, cosa sta cercando di dire? Di quale illumina­zione sta parlando: è quella degli śrāvaka,[23] dei pratyekabud­dha,[24] oppure è quella dei Buddha? A qualunque di queste si riferisse, nes­suna ha la mi­nima relazione con la retribuzione karmica. Di certo le sue parole non riecheggiano quelle del Bud­dha. Gli suggerisco di comprarsi un paio di sandali di paglia e fare il monaco itinerante.

Il Venerabile Shishibodai ed il Patriarca Eka, senza dub­bio furono vittime di un assassinio per mano di malvagi. Non c’è però motivo di ritenere che essi non riceveranno la re­tribu­zione karmica nella loro esistenza successiva, dal momento che quella non era la loro ultima rinascita, né vi erano ostacoli al loro in­gresso nello stato intermedio, non avendo essi commesso alcuna delle cinque azioni scellerate. Quando il karma generato dalle nostre azioni giunge a maturazione, nessuno può evitarne il ri­sultato. Risulta chiaro che Chōsa aveva totalmente frainteso la questione della retribuzione karmica nei tre mondi. Il Vene­rabile Kumāralabdha ne aveva invece una comprensione piena e le sue parole riflettono quelle dei Patriarchi. Egli è veramente un punto di riferimento per gli studenti che desiderano chia­rire tale principio. Nell’accingerci ad investigare la legge di causa­lità, dobbiamo essere certi di farlo fino in fondo. Esistono in tutto otto specie di karma, ognuna delle quali deve essere compresa pienamente prima di poter ricevere la trasmis­sione del Dharma dai Buddha e dai Patriarchi. Chi non ha fatto questo, non ha il diritto di essere considerato inse­gnante degli esseri senzienti.

Śākyamuni disse: “Il karma non perde di forza nep­pure col trascorrere di centomila kalpa e nessuno è immune dai suoi effetti. La legge è chiara: le cattive azioni producono cat­tivi risultati, le buone azioni producono buoni risultati, e una combi­nazione di buone e cat­tive azioni produce risultati misti. Nel vostro studio dovete scartare il primo e l’ultimo modo, concentrandovi solo sull’agire il bene.” Quando il Bud­dha Śākyamuni ebbe concluso il di­scorso, i monaci presenti furono pervasi da una gioia profonda e fecero voto di seguire sinceramente queste parole.

L’insegnamento di Śākyamuni elimina ogni dubbio sul fatto che il karma non può affievolirsi e che tutte le nostre azioni riceveranno infine la giusta retribuzione. Dovremmo, da questo istante, smettere di produrre il male, pentirci, ed essere fe­lici quando vediamo qualcuno agire il bene; entrambe queste co­se aumentano il nostro buon karma. Questo è il significato dell’in­segnamento: “Il karma non si at­tenua.”

 

 

(La data di stesura è sconosciuta).

Ricopiato da Ejō nel 1253.



[1] I śūdra rappresentano la casta indiana più bassa. Tradizionalmente esistevano quattro caste: brāhmana (i sacerdoti), ksatriya (la nobiltà), vaiśya (i lavoratori) e śūdra (i servi).

[2] Un kalpa indica un tempo infinitamente lungo; rappresenta infatti un ciclo cosmico pari a circa trecentoventi milioni di anni. Si veda il Sūtra del Loto, pag. 60. 

[3] Lett. “Così arrivato”.

[4] Il mondo dei preta o spiriti affamati, il mondo degli animali, il mondo degli aśura o spiriti rabbiosi.

[5] Abhidharma-mahāvibhāsa-śāstra. È il testo principale della scuola Hīnayāna dei Sarvāstivādin; scritto nel 2° secolo, descrive la vita nella fase di esistenza intermedia.

[6] Uno dei più importanti re della dinastia Kusāna, dell’India settentrionale. Visse a cavallo tra il primo e il secondo secolo e fu un grande sostenitore del Dharma del Buddha.

[7] Arhat, lett. “Colui che ha valore”. Nel Buddhismo Hīnayāna, si dice che lo śrāvaka (uditore della voce) passi attraverso quattro stadi. Il primo è srotāpanna (l'entrata nella corrente), il secondo è sakrdāgāmin (chi è soggetto a tornare una volta sola), il terzo è anāgāmin (chi non è soggetto al ritorno), e il quarto ed  ultimo è arhat.

[8] Ajātaśatru, figlio del re Bimbisāra. Una volta incoronato principe uccise il padre e imprigionò la madre. Infine, tuttavia, divenne seguace del Buddha.

[9] Devadatta era cugino del Buddha e, divenuto monaco nella comunità del Buddha, gli si rivoltò contro e cercò, assieme al re Ajase, di distruggere l’ordine buddhistico.

[10] Utpalavarnā. Si veda il cap. 78, Kesa Kudoku.

[11] Abi, in sanscrito Avīci, significa senza interru­zione. Si tratta del peggiore degli inferi.

[12] Due dei grandi discepoli del Buddha. 

[13] In sanscrito, antarā-bhava. Si riferisce ad un concetto del Brahmānesimo che considera un’esistenza intermedia tra la morte e la successiva rinascita. Vedi anche il Bardo Todol o “Libro Tibetano dei Morti”.

[14] Abi, in sanscrito Avīci, significa senza interru­zione. Si tratta del peggiore degli inferi.

[15] Uno yojana equivale al percorso che un bue, tirando un carro, riesce a coprire senza cambio: circa quindici chilometri.

[16] Il Maestro Chōsa Keishin (?-868), nella linea di trasmissione del Maestro Nansen Fugan. [Chang-sha Ching-ts’en]

[17] In sanscrito Simha, fu il ventiquattresimo Patriarca e visse in India nel 6° secolo. Accusato ingiustamente, fu giustiziato dal re del Kashmīrā.

[18] Il Maestro Taiso Eka (487-593), il successore del Maestro Bodhidharma. Noto anche come Jinkō Eka. [Shen-kuang Hui-k’o]

[19] Il Maestro Nansen Fugan (748-834), uno dei successori del Maestro Baso Dōitsu. [Nan-ch’üan P’u-yüan]

[20] Il Maestro Yōka Genkaku (675?-713), uno dei successori del Maestro Daikan Enō. [Yung-chia Hsüan-chüeh]

[21] Che opera su un periodo indefinito.

[22] Cioè il karma positivo nei tre tempi e nel tempo indefinito, e il karma negativo nei tre tempi e nel tempo indefinito.

[23] Lett. “Colui che ascolta”, in origine si riferiva a coloro che avevano udito direttamente l’insegnamento dalla voce del Buddha. Più tardi, la parola śrāvaka fu utilizzata più genericamente per distinguere gli studenti Hīnayāna da quelli Mahāyāna.

[24] Il pratyekabuddha o “Buddha solitario”, è il veicolo che si basa sulla teoria dell’originazione interdipendente (i dodici anelli della catena di causa ed effetto). Gli altri due veicoli sono: il veicolo dello śrāvaka o “Uditore”, che si basa sulla teoria dei quattro stadi,  ed il veicolo del bodhisattva o “Essere di verità”, basato sulle sei pāramitā (le sei perfezioni, o perfezionamenti).